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La breve malattia di George Washington

Unknown

La breve malattia di George Washington

Il primo presidente degli Stati Uniti nel 1796, allo scadere del suo secondo mandato, decise di non ripresentarsi, pubblicò un messaggio di commiato alla nazione americana e si ritirò nella sua tenuta a Mount Vernon in Virginia dove morì il 14 dicembre 1799, dopo una malattia acuta durata soltanto 21 ore.  George Washington  in gioventù fu affetto da vaiolo e da malaria e, per queste malattie si sottopose a trattamenti prolungati con ossido di mercurio. Fu proprio questo farmaco a causare in lui sterilità (ebbe solo figli adottivi) ma soprattutto gli innumerevoli problemi ai denti ed alla gola che lo afflissero per tutta la vita. A soli 22 anni perse il suo primo dente e gli altri seguirono e in breve tempo, nel 1789, quando divenne Presidente, gliene rimaneva uno solo. Washington cambiò un gran numero di dentiere,  in genere costituite da una base di avorio su cui venivano fissati denti umani legati tra loro da filamenti d’oro. Confrontando i suoi ritratti nel tempo si può apprezzare la asimmetria della parte inferiore del volto, tanto per la protesi, ma anche per le ricorrenti infezioni (stomatiti) che si accanivano nella sua bocca.  Il 12 dicembre 1799, dopo avere ispezionato a cavallo la sua fattoria sotto una pioggia gelata, rientrò a casa per la cena senza cambiarsi gli abiti bagnati. Il giorno dopo accusò un leggero mal di gola, simile a tante altre volte. Nella notte, tra le 2 e le 3, però, si svegliò con difficoltà del respiro e dolore alla deglutizione. Al mattino, avvertendo il peggioramento, fece chiamare il suo fattore e gli ordinò di praticargli un salasso, trattamento in grande uso a quel tempo per qualsiasi genere di malattia. Verso le 10 arrivarono i medici curanti e, tenuto conto dei sintomi: dolore alla gola, difficoltà alla deglutizione e alla respirazione e dolore nel parlare, emisero diagnosi di “inflammatory quinsy”: ostruzione delle vie respiratorie che può portare a soffocamento. I due medici ordinarono un più generoso salasso, anche questo senza miglioramento dei sintomi. Dopo un terzo infruttuoso salasso,  alle 3 del pomeriggio arrivò un giovane medico, di cui i curanti avevano grande stima che, dopo aver esaminato l’illustre paziente, si ritirò a consulto con i due anziani colleghi, proponendo loro di eseguire una tracheotomia. L’anzianità dei due curanti però ebbe la meglio e l’accordo che i tre medici raggiunsero fu di praticare un quarto salasso. Furono estratte 32 once di sangue – quasi 1 litro – che, aggiunto ai precedenti prelievi, porta a quasi 2 litri la perdita ematica totale. Il malato si indebolì ulteriormente. Alle 8 di sera furono applicati dei vescicanti alle gambe e posto un collare di crusca alla gola. Alle 10 il respiro si fece sempre più lieve,  alle 11,30 sopravvenne la morte. Oggi sappiamo che l’unica soluzione possibile per evitare l’asfissia sarebbe stata la tracheotomia, intervento noto fin dall’antichità, ma praticato per secoli soltanto all’ultimo istante, quale estremo tentativo poco prima che il paziente esalasse l’ultimo respiro. In queste condizioni il rischio di mortalità intraoperatoria diventava elevatissimo (>70%) per cui pochissimi chirurghi avevano il coraggio di eseguirla.  La mortalità da tracheotomia sarebbe discesa in maniera significativa soltanto dopo le numerose esperienze sui difterici (1821-22) e soprattutto dopo la definitiva codificazione dell’intervento nel 1850.