www.rolandofustos.it | Blog del Dr. Rolando Füstös otorino
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aria asciutta dell’inverno di montagna

Troppo spesso trascuriamo gli effetti dell’aria secca che i nostri inverni continentali ci costringono a respirare.  Dai “capelli ribelli” alla pelle squamosa, l’aria fredda invernale può influire negativamente sull’aspetto del nostro corpo. Ma pochi considerano che l’aria secca invernale può anche renderci  molto più vulnerabili alle malattie. L’inverno tende ad essere la stagione più difficile per la salute, soprattutto per chi ha problemi respiratori. La maggior parte delle persone tende a prendere il raffreddore più spesso nei mesi invernali. Ciò è dovuto all’impatto che l’aria secca ha sulle vie respiratorie di ognuno. Respirare aria secca può favorire disturbi respiratori come asma, bronchite, sinusite e sangue dal naso. Ancora, la respirazione di aria secca può causare disidratazione poiché i liquidi corporei vengono esauriti più rapidamente. “Le mucose nasali si seccano”, afferma il medico di medicina di famiglia Daniel Allan. “Il muco che normalmente dovrebbe essere appiccicoso e denso poiché ha lo scopo di intrappolare l’infezione, diventa più secco e meno efficiente. Quindi è più probabile  prendersi un raffreddore perché il  muco non è in grado di catturare le particelle, virus e batteri che sono più concentrati nell’aria che respiriamo.

Quando la mucosa dei seni paranasali si presenta asciutta, la protezione dai germi inalati è scarsa o nulla, poiché è il muco che li inattiva e li blocca. Se è così per tutti, immaginate le problematiche che si aggiungono per chi ha già problemi respiratori come malattie polmonari o apnee notturne.

Sebbene l’inverno possa essere una stagione di socializzazione e riunisce le persone in casa, fornisce però anche un ambiente perfetto affinché i germi possano prosperare e trasmettersi. Alcune delle malattie respiratorie più comuni nei mesi invernali sono bronchite, pertosse, sinusite e polmonite, tutte patologie assai pericolose per la vita di chi ha un sistema immunitario indebolito. Tuttavia, è possibile che l’aria invernale possa portare benefici ad alcune persone.  L’aria estiva contrasta notevolmente con l’aria secca invernale che può scatenare i sintomi di alcune forme di asma. Sebbene l’umidità sia ottima per la pelle, può trasportare allergeni che causano una riacutizzazione in queste forme particolari.

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HPV

HPV sta per Human Papilloma Virus, un virus estremamente diffuso che infetta la pelle e le mucose delle persone. L’infezione può causare verruche (papillomi) sulla cute o sulle mucose di genitali, bocca e gola ma anche delle vie aeree superiori. Esistono oltre 100 tipi di HPV. L’infezione è estremamente comune e solitamente innocua. Si ritiene che fino al 50% delle persone siano infette da un ceppo di questo virus, spesso senza alcun sintomo. L’HPV viene solitamente eliminato dall’organismo, ma può anche persistere per anni e causare una infezione cronica.  Circa 40 tipi di HPV colpiscono le mucose, causando papillomi nelle vie aeree superiori e nella zona genitale. Fortunatamente solo pochi ceppi  sono considerati “ad alto rischio” in quanto associati allo sviluppo del cancro in queste aree.  Poiché l’infezione da HPV è così comune, si stima che fino al 90% delle persone siano state esposte prima o poi a un HPV ad alto rischio. Tuttavia, solo l’1% circa mostra segni di un’infezione orale attiva cosí grave.  Non sappiamo ancora perché alcune persone con HPV ad alto rischio sviluppano il cancro e altre no. È accertato che l’infezione da HPV orale provenga principalmente dal contatto oro-genitale. Si ritiene che i cambiamenti nel comportamento delle persone abbiano favorito la diffusione dell’HPV e l’aumento delle infezioni, tanto che oggi è oggi la malattia a trasmissione sessuale più comune e il suo rapido aumento negli ultimi decenni è stato definito “epidemico”.

Il  cancro della testa e del collo,  rappresenta grossomodo il 3% di tutti i tumori. Nel 20° secolo, la stragrande maggioranza dei tumori della testa e del collo era associata all’uso di tabacco e alcol. Ciò vale ancora per i tumori della laringe. Assistiamo però di recente ad un aumento dei tumori associati all’HPV, soprattutto nella parte superiore della gola (orofaringe). Ora, circa il 70-75% dei tumori dell’orofaringe dipende da un’infezione da HPV. Praticamente tutti questi pazienti sono infettati da un ceppo ad alto rischio.

Questo cambiamento nel processo della malattia significa che persone diverse si ammalano di cancro alla testa e al collo rispetto al passato. Il paziente più comune affetto da cancro dell’orofaringe è ora un uomo bianco di mezza età, non fumatore e non bevitore.

La prevenzione del cancro della testa e del collo associato all’HPV consiste nel diffondere le conoscenze sul rischio del virus e come si contrae. L’HPV si trasmette sessualmente e il rischio di cancro dell’orofaringe associato all’HPV è direttamente aumentato dal numero di partner sessuali orali che una persona ha nel corso della sua vita.

Un’altra parte fondamentale della prevenzione riguarda il vaccino specifico che previene dall’infezione da ceppi di HPV cancerogeni. Questo vaccino elimina quasi totalmente il rischio dello sviluppo di tumori come il cancro del collo dell’utero e il cancro dell’orofaringe. Ora viene offerto agli adolescenti allo scopo di ridurre questi tumori in futuro.

I ricercatori stanno lavorando su un test di tipo Pap-test per lo screening dell’infezione orale da HPV, ma ancora non è disponibile nella pratica quotidiana.

Anche la prognosi per i tumori associati all’HPV è diversa. Il cancro dell’orofaringe associato all’HPV viene trattato in modo simile al cancro dell’orofaringe non HPV, di solito con la chirurgia, la radioterapia o una combinazione di entrambi. La buona notizia è che il cancro associato all’HPV ha una migliore risposta al trattamento rispetto ai tumori legati al fumo, con conseguenti tassi di guarigione più elevati. Con le cure attuali la sopravvivenza libera da malattia a 3 anni per il cancro dell’orofaringe associato a HPV può raggiungere il 90%.

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Il gocciolamento retronasale

Il gocciolamento retronasale è l’accumulo di muco nella parte posteriore della gola, che può causare una sensazione di congestione, senso di corpo estraneo, mal di gola o tosse. È un sintomo frequente del comune raffreddore, di una sinusite o di forme allergiche. Il muco in eccesso è provocato dall’ infiammazione delle cavità nasali, che può derivare da una varietà di fattori come infezioni virali o batteriche, allergie o sostanze irritanti nell’aria.

Ogni giorno, le ghiandole presenti nei rivestimenti del naso, della gola, delle vie aeree, dello stomaco  e  del tratto intestinale producono muco. Il naso da solo ne produce circa un litro ogni giorno.  Si tratta di una sostanza densa e umida che riveste queste aree e aiuta a intrappolare e distruggere gli invasori estranei come batteri e virus prima che possano causare infezioni.

Normalmente, il muco del naso si mescola con la saliva, gocciola innocuo lungo la parte posteriore della gola e lo ingoiamo inconsapevolmente. Si tratta del meccanismo con cui il corpo intrappola polvere e altre particelle per evitare che entrino nei polmoni.

Quando si produce più muco del solito o questo è più denso del normale, diventa più evidente e fastidioso. L’eccesso può colare dalle narici o venirne soffiato fuori. Quando però il muco scorre lungo la parte posteriore del naso fino alla gola, parliamo di gocciolamento retronasale.

L’eccesso di muco ha molte possibili cause, tra cui: l’influenza, molte forme allergiche, le sinusiti, i corpi estranei nel naso (più comune nei bambini), l’effetto collaterale di alcune medicine, alcuni alimenti soprattutto piccanti, ma anche bruschi cambiamenti meteorologici (aria molto fredda o molto secca) Causa di eccesso di secrezione nasale possono anche essere inalazioni di fumi o vapori chimici, profumi, detersivi, solventi o altre sostanze irritanti.

La sensazione più frequente e fastidiosa è che ci fa sentire come se se ci si dovesse costantemente schiarire la gola.

Può anche scatenare la  tosse, che il più delle volte peggiora durante la notte. Talvolta la voce si fa rauca e si prova un persistente mal di gola.

Il trattamento del gocciolamento postnasale dipende dalla causa che lo provoca.  Antistaminici e decongestionanti  possono spesso ridurlo o bloccarlo. Sono efficaci gli spray nasali al cortisone usati da soli o in associazione.

Un’altra strategia di trattamento è spesso quella di fluidificare il muco se é denso è appiccicoso. Un modo semplice per diluirlo è bere più acqua e liquidi in generale. Sono indispensabili le soluzioni saline spray o sotto forma di lavaggi e irrigazioni e vanno favoriti vaporizzatori e umidificatori negli ambienti dove si passa più tempo.

Il rimedio casalingo più vecchio, assieme al classico suffumigo, é il brodo caldo di pollo. La zuppa calda o qualsiasi liquido caldo può dare un sollievo e un conforto temporaneo. Funziona perché il vapore del liquido caldo apre il naso e la gola. Inoltre fluidifica il muco. Un bagno turco, ma anche una doccia calda e ricca di vapore può aiutare per lo stesso motivo.

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il 3 febbraio si ricorda San Biagio, protettore dalle malattie della gola

Secondo la tradizione, Biagio nacque da una nobile famiglia in Cappadocia, dove il cristianesimo era stato adottato come religione ufficiale intorno al 300 dC. I romani inasprirono in quel periodo le persecuzioni dei cristiani armeni. Biagio udì un messaggio di Dio che gli diceva di fuggire sulle colline dove (come Mamete di Cesarea, San Mamas, patrono delle puerpere) visse in una grotta come eremita in solitudine e preghiera.

La leggenda narra che fece amicizia con gli animali selvatici e che un gruppo di cacciatori a caccia di leoni per l’anfiteatro romano trovò il vescovo inginocchiato in preghiera, circondato da lupi, leoni e orsi che lo attendevano pazientemente. Arrestarono Biagio e lo portarono da Agricola, governatore della Cappadochia che lo fece incarcerare perché cristiano. Lungo la strada del carcere incontrarono una donna il cui maiale stava per essere sbranato da un lupo;  Biagio ordinò al lupo di liberare il maiale, che rimase illeso. L’anziana signora, grata per il tempestivo rilascio del suo maiale, in seguito fece visita a Biagio in prigione, per portargli delle candele in modo che potesse leggere le Scritture nella sua cella. Mentre era in prigione, una madre arrivò con il suo giovane figlio che aveva una lisca di pesce in gola e lui lo liberó incrociando i ceri sulla gola secondo un rito eseguito tutt’oggi per la benedizione della laringe.

Biagio, che al processo si rifiutò di disconoscere la sua fede cristiana fu appeso a un albero, la sua carne strappata dalle ossa con rastrelli e pettini di ferro. Infine, fu decapitato.

Il martire divenne non solo patrono della gola, ma anche degli animali selvatici (e in seguito dei veterinari) e dei lavoratori della lana, grazie al metodo con cui il santo fu martirizzato, con un pettine di lana. Il suo culto iniziò a diffondersi a partire dall’VIII secolo  in tutta Europa. Divenne patrono del regno di Armenia. Nel 1222, il lavoro manuale fu bandito in Inghilterra nel giorno della festa di S. Biagio. C’è un villaggio in Cornovaglia chiamato Saint Blazey e nel Kent c’è il pozzo curativo di St Blaise. Le chiese e le scuole abbondano soprattutto nelle zone di produzione della lana. È anche il santo patrono dello Yorkshire.

San Biagio ha prestato il suo nome a molti luoghi in Spagna e Sud America. L’ultima poesia di Longfellow, The Bells of San Blas , si riferisce a una chiesa in Messico. È il santo patrono del Paraguay e anche dell’isola di Madeira. Ci sono diverse città in Portogallo e in Brasile che portano il suo nome, dove è chiamato São Brás.  In Italia si custodiscono molte delle sue reliquie, compreso il suo corpo, che è stato salvato dopo un naufragio ed è conservato in un sarcofago di marmo a Maratea. Nella chiesa di San Biagio a Roma c’è un osso presumibilmente dalla sua gola.

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cybercondria

“Questa mattina, mi sono svegliato e ho avuto la sensazione di non vedere molto distintamente e di avere forse un lieve pesantezza del capo. Ho digitato ricercando in internet: “riduzione della vista e mal di testa”. Tra i risultati di google appaiono molte pagine che riportano informazioni relative a tumori cerebrali! La mia preoccupazione cresce e con essa il desiderio di ricercare in internet altre informazioni sul mio stato di salute”.

Il termine cybercondria è un neologismo, creato dall’unione delle parole: cyber ed ipocondria e si riferisce alla ormai molto diffusa tendenza di ricercare su internet le informazioni mediche relative al proprio stato di salute. La cybercondria é quindi la controparte online dell’ipocondria, è piú accentuata per coloro che temono l’ignoto e colpisce oltre il 32% della popolazione mondiale. Circa otto italiani su dieci digitano il sintomo di cui soffrono in qualche motore di ricerca per avere spiegazioni sullo stato di salute.

Le persone che hanno una “intolleranza all’incertezza” adottano “comportamenti di sicurezza” – come controllare i sintomi online – per tentare di ridurre il loro disagio. Ma esplorare il web alla ricerca di informazioni mediche può potenzialmente portare a maggiori livelli di incertezza, ha affermato il ricercatore Thomas Fergus della Baylor University in Texas, che ha dichiarato: “Se sono una persona a cui non piace l’incertezza, aumenta la mia ansia, tendo a fare ricerche più approfondite, monitorare di più il mio corpo, andare dal medico più frequentemente – e più cerchi, più aumentano le possibilità di sentirsi piú ammalato del reale”. Il suo studio, pubblicato sulla rivista Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, é stato esaminato il livello di ansia per la salute e di intolleranza all’incertezza in 512 adulti sani. È stato confermato che la frequenza della ricerca di informazioni mediche su Internet e l’ansia per la salute diventavano sempre più forti con l’aumentare dell’intolleranza all’incertezza. I risultati hanno mostrato che le persone che hanno difficoltà a tollerare l’incertezza hanno “una particolare probabilità” di sviluppare la cybercondria “Un individuo che cerca informazioni mediche su Internet probabilmente si troverà davanti a molteplici spiegazioni per i sintomi, alcune delle quali potrebbero essere spiegazioni catastrofiche.” Guelfi e Masoni , coordinatori del dipartimento di medicina sperimentale di Firenze, concludono:” Internet possiede caratteristiche che possono portare a un aggravamento dell’ipocondria. È quindi opportuno evitare di fare autodiagnosi online, perché un processo diagnostico non può essere effettuato mediante uno strumento automatico e sulla base di alcuni sintomi che vengono inseriti in un motore di ricerca. La capacità di fare diagnosi è un processo complesso che tiene conto di numerose informazioni che il medico ottiene tramite un colloquio con il paziente ed è una competenza che si acquisisce dopo anni di studio ed esperienza. Da qui la raccomandazione di consultare sempre il medico curante prima di prendere decisioni relative alla propria salute in base a informazioni recuperate in rete.”

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La vertigine posizionale

La vertigine scatenata dai movimenti della testa é oggi motivo di curiosità  per molti che si domandano cosa sta costringendo a casa la premier Meloni che, a causa di violenti giramenti di testa, ha annullato tutti gli appuntamenti istituzionali di fine anno. È stata esclusa una labirintite e sembra confermato che si tratti di quella fastidiosa forma che prende il nome di Vertigine Posizionale Parossistica Benigna (VPPB).

Ma da quali posizioni o movimenti della testa e del corpo è innescato o amplificato questo fenomeno? Se le vertigini si verificano quasi esclusivamente a causa di certi movimenti e posizioni, lo specialista parla di  vertigini posizionali. Queste forme benigne sono una malattia comune molto invalidante, ma innocua. Quando la testa si gira in una certa posizione, delle pietre molto piccole (otoliti) si spostano nell’organo dell’equilibrio dell’orecchio interno e causano violenti attacchi di vertigini rotatorie che durano pochi secondi. Si riducono se vengono provocati più volte di seguito. Anche senza alcun trattamento, la malattia di solito scompare dopo 6-8 settimane, ma può ripresentarsi più volte nella vita. I pazienti riferiscono per lo più vertigini ricorrenti e di breve durata, spesso associate a nausea quando si cambia posizione del capo; di solito quando la testa è inclinata o ruotata; soprattutto al mattino, ma anche quando ci si alza o ci si siede. Circa 2 persone su 100 hanno sperimentato almeno una volta una vertigine posizionale benigna ad un certo punto della loro vita. Nelle donne, si verifica con circa il doppio della frequenza rispetto agli uomini. Le persone tra i 40 e i 70 anni sono le più colpite. Di solito, una vertigine posizionale benigna è facile da riconoscere e diagnosticare in base al racconto e alla storia del paziente e per lo più è facile da distinguere dalle altre (più severe) forme di vertigine. L’otorinolaringoiatra osserva anzitutto gli occhi durante l’esame vestibolare, perché i movimenti involontari tipici a scatti degli occhi (nistagmo) si manifestano durante l’attacco di vertigine. Per farlo fa indossare occhiali speciali a ingrandimento durante il test. Poiché una vertigine posizionale benigna quasi sempre scompare da sola, spesso è sufficiente aspettare e alleviare i sintomi. Ma ci sono anche modi per curare e far regredire le vertigini. Le cosiddette manovre di posizionamento sono molto efficaci. Una certa sequenza di movimenti della testa e del corpo riesce a spostare le pietre sciolte in modo che definitivamente non inneschino più attacchi.

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Vino rosso e mal di testa

Per il filosofo greco Celso il vino era la cura per numerosi disturbi, dalla stanchezza alla febbre, alla tosse e perfino alla stitichezza. Ma nonostante i suoi sicuri poteri curativi, l’uva, ammetteva ai suoi fedeli lettori, può provocare strani mal di testa.

Ora, i ricercatori ritengono di aver scoperto il motivo per cui il vino, in particolare il vino rosso, in talune persone causa mal di testa improvvisi. Quando il fegato elabora questa particolare bevanda, produce una sostanza che ha gli stessi effetti di un farmaco che viene prescritto per far sentire malissimo gli alcolisti e limitarne la dipendenza.

“Pensiamo di essere finalmente sulla strada giusta per spiegare questo mistero vecchio di millenni”, ha affermato Morris Levin, direttore dell’Headache Center dell’Università della California.

Il mal di testa da vino rosso è una sensazione diversa da quella che potremmo sperimentare dopo una sbornia, perché  si manifesta per lo più la mattina dopo una bevuta eccessiva. Spesso la cefalea da vino rosso compare già pochi minuti dopo aver bevuto solo uno o due bicchieri.

Sin dai tempi di Celso, i ricercatori hanno analizzato tutti i tipi di componenti del vino rosso alla ricerca della causa. I tannini, i solfiti e le ammine biogene sono tutti stati indagati. Finora, nessuno era stato individuato come un sicuro fattore scatenante.

In un articolo scientifico molto recente, ricercatori statunitensi hanno affermato di essersi concentrati sui flavonoidi fenolici, composti che derivano dai semi e dalla buccia dell’uva e che contribuiscono al colore, al gusto e alla sensazione in bocca del vino rosso. I livelli di tali flavonoidi possono essere 10 volte più alti nei vini rossi rispetto ai bianchi, rendendoli i primi candidati a causare mal di testa immediati.

Quando le persone bevono vino, l’alcol viene metabolizzato in acetato in due passaggi. Il primo converte l’alcol sotto forma di etanolo in acetaldeide. Il secondo trasforma l’acetaldeide in acetato. Enzimi specifici nel fegato sono all’origine di ciascuno di questi processi.

Il professor Andrew Waterhouse, esperto di viticoltura presso l’Università della California, Davis, ha eseguito test di laboratorio su più di una dozzina di composti presenti nel vino rosso. Uno si è distinto. Un flavanolo chiamato quercetina, presente quasi esclusivamente nel vino rosso, viene trasformato nell’organismo in diverse sostanze. Una di queste, la quercetina glucuronide, si è rivelata particolarmente efficace nel bloccare l’enzima che converte l’acetaldeide in acetato.

Questa sembra la chiave per risolvere il mistero. Con la soppressione dell’enzima cruciale, l’acetaldeide tossica si distribuisce con il flusso sanguigno, nell’organismo. Ad alti livelli, questo provoca mal di testa, nausea, rossore al viso e sudorazione. Agirebbe infatti proprio come un farmaco chiamato disulfiram,  che, bloccando lo stesso enzima, viene usato per curare gli alcolisti producendo gli stessi fastidiosi sintomi se bevono.

Secondo i ricercatori, quando le persone sensibili bevono vino rosso contenenti quantità anche modeste di quercetina, possono sviluppare mal di testa, soprattutto se sono inclini all’emicrania. Perché alcuni siano più colpiti di altri non è chiaro: i loro enzimi potrebbero essere più facili da bloccare, o potrebbero semplicemente essere più suscettibili all’acetaldeide tossica.

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Oscar Wilde

Il celebre scrittore irlandese Oscar Wilde ebbe un particolare legame con l’otorinolaringologia, da una parte perché era figlio di Sir William Wilde, che fu pioniere di questa disciplina nel Regno Unito, dall’altra perché, per un singolare destino, morì precocemente a causa di gravi complicanze dell’otite cronica che il padre aveva diagnosticato per primo.

Per molti anni la prematura scomparsa dello scrittore e poeta irlandese è stata imputata alla sifilide, che avrebbe indotto la meningoencefalite che lo portò alla morte all’età di 46 anni il 30 novembre 1900. La meningoencefalite fatale sarebbe stata invece conseguenza di un’otite media, sopraggiunta durante il periodo di prigionia e divenuta cronica per le poche cure ricevute nel carcere di Reading. Secondo gli autori, l’otite di Wilde era andata incontro a complicazioni mastoidee, tanto che un mese prima della morte lo scrittore era stato sottoposto a mastoidectomia, un’operazione chirurgica all’avanguardia per l’epoca.

In realtà già in un articolo del 1958 dal titolo “The Last Illness of Oscar Wilde” pubblicato   su Proceedings of the Royal Society of Medicine, Terence Cawthorne riportava: “La causa certificata di morte era meningite cerebrale e quasi tutti quelli che lo conoscevano sentivano che il suo modo di vivere avesse contribuito alla sua morte all’età di 46 anni. Con l’eccezione di Frank Harris, nessuno dei suoi biografi che hanno affrontato la causa della sua morte dubitava che la neurosifilide fosse responsabile della sua malattia terminale e che l’alcolismo avesse affrettato la sua fine. A questo non credo, perché, senza voler in alcun modo condonarlo o negare le sue abitudini, io penso che uno studio attento della sua vita e della sua ultima malattia debba portare alla conclusione che morì nientemeno che per una complicazione intracranica di un’otite media suppurativa. […] A quei tempi il ruolo giocato dall’otite cronica come causa di infezione intracranica fatale è stato raramente riconosciuto; così non sorprende che la sua morte sia stata attribuita alla sua follia e all’autoindulgenza che erano evidenti, piuttosto che a un’oscura infezione all’orecchio che lui stesso aveva sempre nascosto.”

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quando il nostro naso esprime le nostre emozioni

Dal dolce aroma dei biscotti appena sfornati che ti fanno sentire al caldo anche in un freddo pomeriggio di autunno, al sottile profumo dei fiori che sbocciano in primavera che ci risvegliano sentimenti positivi, il senso dell’olfatto ha un fortissimo impatto sulle nostre emozioni. Questo perché “c’è una parziale sovrapposizione tra le aree del nostro cervello che si occupano della percezione olfattiva e quelle che elaborano le emozioni”,  come ha detto Marilena Aiello, ricercatrice di neuroscienze e autrice di uno studio che indaga i legami tra profumo ed emozioni.

La pubblicazione ha valutato come alcuni profumi sono stati percepiti dalle persone che presentano una condizione psicologica nota come alessitimia, per cui presentano difficoltà a esprimere le loro emozioni. (dal greco, alexithymia che significa “nessuna parola per i sentimenti”) Si stima che 1 persona su 10 possa presentare questa condizione.

Le persone con alessitimia hanno difficoltà a elaborare e a relazionarsi con diverse emozioni, come la gioia, la rabbia o il disgusto. Dato il legame ben consolidato tra olfatto ed emozioni, i ricercatori volevano appurare se l’alessitimia influenzava il modo in cui le persone rispondevano ai diversi profumi.

La conclusione é stata che gli individui con livelli medio-alti di alessitimia hanno mostrato una maggiore risposta fisiologica agli odori (la loro frequenza cardiaca ha accelerato e la conduttanza della pelle è aumentata) rispetto agli individui con bassi livelli di alessitimia. Si é concluso pertanto che: “I risultati ottenuti mostrano che una delle caratteristiche dell’alessitimia è la risposta fisiologica alterata agli stimoli olfattivi”. Conferma inequivocabile quindi che: “le reazioni fisiologiche degli individui alessitimici alle emozioni indotte dagli odori sono decisamente più intense”.

I risultati dello studio hanno anche rivelato che i partecipanti con “alessitimia cognitiva”, che compromette la capacità di identificare, esprimere e distinguere le emozioni, hanno reagito in modo diverso agli odori rispetto a quelli con “alessitimia affettiva”, che ostacola le sensazioni, l’immaginazione e la creatività  di una persona.

In conclusione si può parlare di alessitimia ogniqualvolta siamo di fronte a reazioni fisiologiche alterate in occasione di stimoli olfattivi.

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Il reflusso faringolaringeo

Il reflusso si verifica quando il contenuto acido dello stomaco risale verso l’alto.
Quando l’acido “refluisce” ripetutamente dallo stomaco nell’esofago, è noto come malattia da reflusso gastroesofageo (GERD). Tuttavia, se l’acido dello stomaco risale oltre l’esofago e raggiunge la gola o la laringe, prende il nome di reflusso laringofaringeo (LPR).
I sintomi che ne derivano possono essere molto vari e combinati in maniera a volte capricciosa. La comparsa di sintomi due o più volte nella settimana indica che è consigliato un trattamento medico.
Nella forma faringolaringea, nella quale il contenuto acido risale l’esofago, non necessariamente avvertiamo il caratteristico bruciore al petto. I sintomi più frequenti consistono in: bruciore di stomaco, eruttazioni, rigurgito, necessità di schiarirsi la gola o tosse, muco retronasale, sapore amaro, sensazione di bruciore o dolore alla gola.
Alle volte domina la sensazione di avere un “nodo” nella parte posteriore della gola, raucedine o cambiamento di voce e talvolta difficoltà a deglutire.
Ne possono soffrire spesso anche i neonati e i bambini con disturbi diversi dagli adulti che possono includere problemi respiratori, tosse, raucedine, respiro rumoroso o asma, russamento o apnee nel sonno, difficoltà di alimentazione, aumento della salivazione.
GERD e LPR possono derivare da debolezza della valvola muscolare che trattiene i cibi nello stomaco. Più spesso, però sono le nostre abitudini sbagliate a favorire questa difficoltà di digestione. Tra queste soprattutto mangiare alimenti come caffè,  cioccolato, agrumi, cibi grassi, cibi piccanti o altre abitudini come alimentarsi troppo e troppo velocemente, cenare tardi, sdraiarsi subito dopo aver mangiato oltre all’uso di alcol e tabacco.
Il reflusso viene per lo più sospettato in base ai sintomi e può essere confermato con test come un esame endoscopico, esami radiografici speciali, uno studio delle 24 ore che controlla la flusso e acidità del liquido dallo stomaco nell’esofago, test di motilità esofagea (manometria) che misura le contrazioni muscolari nell’esofago durante la deglutizione e studi sullo svuotamento dello stomaco.
Le cure devono partire da modifiche allo stile di vita e alla dieta, possono però prevedere farmaci e più raramente interventi chirurgici. Per molti pazienti, possono essere necessari da due a tre mesi di dieta e assunzione di farmaci per apprezzare i primi effetti della cura.

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anche la saliva fa i suoi calcoli

I calcoli delle ghiandole salivari sono piccoli calcoli che si formano nelle ghiandole salivari della bocca e possono bloccare il flusso della saliva. Di solito non causano gravi problemi tanto che spesso chi ne soffre può essere in grado di rimuoverli da solo. La maggior parte dei calcoli delle ghiandole salivari si forma sotto la lingua in una delle ghiandole che forniscono saliva alla bocca. Non sono però sempre facilmente visibili. Per lo piú sono delle dimensioni di un pisello. I disturbi che provocano variano da un dolore che va da un senso di pesantezza, a un male anche intenso fino alla vera e propria colica salivare, che si attenua spontaneamente, ma può anche ricomparire. Si può presentare come gonfiore in bocca che aumenta di tanto in tanto e, se si instaura un’infezione, al dolore si associa arrossamento e febbre. Quando compare un dolore intenso durante i pasti, significa che il calcolo sta bloccando completamente una ghiandola salivare. Il dolore di solito dura da 1 a 2 ore.   Chi ne soffre può provare a rimuovere il calcolo dalla ghiandola salivare cercando di aumentare la quantità di saliva in bocca, per esempio succhiando un limone o gocce di limone, bere molta acqua, meglio se acidificata, massaggiando delicatamente il collo se gonfio o il pavimento della bocca, sotto la lingua, masticando, se non troppo doloroso una gomma. Quando però il dolore é intenso e vi é del gonfiore persistente va instaurato un trattamento antidolorifico, antinfiammatorio. È consigliato anche succhiare un cubetto di ghiaccio io un ghiacciolo. In ogni caso i sintomi non scompariranno fino a quando il calcolo non sarà stato rimosso.   Non è chiaro cosa provochi il formarsi di calcoli della ghiandola salivare, di conseguenza non c’è un modo sicuro per prevenirli. Una volta rimossi, i calcoli delle ghiandole salivari di solito non tornano. Se però recidivano, perché continuano a riformarsi, potrebbe essere necessario rimuovere del tutto la ghiandola salivare con un intervento chirurgico.

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il silenzio

Il suono e il silenzio potrebbero sembrare degli opposti. Tuttavia, secondo una serie di recenti ricerche, il nostro cervello li percepisce allo stesso modo. Il silenzio potrebbe essere assenza di suono, ma gli scienziati dicono che quello che giudichiamo silenzio, non dipende dal fatto che non sentiamo altri suoni, ma che possiamo direttamente percepirlo.

L’ipotesi fondamentale presuppone una domanda curiosa e complessa: esiste il silenzio? Si può sentire? Attiva il nostro sistema uditivo? Se esso è solo l’assenza di rumore, e dunque non esiste di per sé, allora è impossibile che si riesca a percepirlo con i sensi. Tre studiosi dei dipartimenti di filosofia e psicologia cognitiva della Johns Hopkins University hanno provato a risolvere questa controversia tramite un metodo sperimentale piuttosto indaginoso e complesso che ha coinvolto 1000 partecipanti. Secondo i risultati di questi studi  il modo in cui elaboriamo il silenzio è molto simile a quello in cui percepiamo i suoni.

Risultati simili si sono ottenuti in tutti i vari esperimenti e hanno portato alla conclusione che gli esseri umani sperimentano il silenzio e il suono più o meno allo stesso modo: sia il suono che il silenzio possono influire e distorcere la nostra percezione del tempo. Federica D’Auria dell’Università di Padova conclude: ” anche l’esperienza del silenzio sembra rappresentare, per certi versi, una forma di ascolto, supportando così la teoria percettiva. Questo risultato suggerisce che gli esseri umani riescono, in qualche modo, a “sentire” il silenzio, che costituirebbe perciò un vero e proprio oggetto della nostra esperienza sensibile, e non solo il concetto teorico che usiamo per indicare la mancanza di suono. Resta ancora da capire cosa sia esattamente il silenzio nella nostra percezione. Se siamo in grado di identificare un suono perché ne riconosciamo altezza, intensità, timbro o durata, come riconosciamo un momento di quiete? L’ipotesi degli autori è che il silenzio venga recepito dal nostro cervello come se fosse un “blank file”, ovvero un oggetto digitale privo di contenuto, come ad esempio un documento di testo in cui non è stata scritta alcuna parola.”

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“Perché non posso cantare intonato?”

La notizia buona è che è possibile imparare a cantare con una buona intonazione, anzi, è più facile di quanto si possa pensare.
Molte persone hanno difficoltà a cantare con voce intonata, mentre altri possono iniziare bene ma poi non riescono a tenere una melodia e iniziano gradualmente a cantare note sbagliate o a vagare fuori chiave. Anche se diremmo che queste persone hanno una brutta voce o sono fondamentalmente dei pessimi cantanti, questo non è un tratto permanente, significa semplicemente che non hanno ancora imparato a cantare intonati.
Questo è probabilmente il problema più grande nell’imparare a cantare: spesso partiamo dall’idea sbagliata, che cantare sia un talento naturale con cui devi nascere. Non è proprio così. In realtà anche i migliori cantanti si sono allenati e hanno studiato duramente per affinare le loro voci. Se appare facile e naturale, non significa che sia così.
Il primo passo per imparare a cantare intonati è verificare di essere biologicamente capaci. Spesso quando si parla di qualcuno che non sa cantare si sente la parola “stonato”. La sordità tonale è una condizione reale. Fa parte di una condizione biologica del cervello chiamata amusia che comprende una serie di incapacità musicali, incluse alcune legate al ritmo piuttosto che al tono. A causa della amusia, chi soffre della sordità tonale non é in grado di riconoscere le differenze tra le altezze di suoni diversi.
In pratica questo significa che se qualcuno suona due note diverse su un pianoforte, chi soffre di una vera sordità tonale non é in grado di dire se si tratta della stessa nota o di due note diverse. In realtà meno del 3% della popolazione generale presenta effettivamente la sordità tonale. Questo è stato dimostrato in un gran numero di test e studi scientifici rigorosi, quindi la probabilità che il nostro interlocutore sia stonato è molto bassa. Quindi la causa più probabile della difficoltà ad essere intonato consiste nell’incapacità di abbinare l’intonazione alla voce. Non per tutti é semplice ottenere dalle corde vocali la nota che si vorrebbe produrre. “Abbinare il tono” significa semplicemente che ascoltando una nota si riesca poi a riprodurre quella stessa nota. Ci sono semplici esercizi di canto che si possono imparare per ottenere un controllo vocale affidabile e imparare a “centrare” facilmente la nota che sentiamo o abbiamo in testa.
Imparare questa abilità significa riconnettere le orecchie con la voce.

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Il cancro dell’imperatore

Il 15 Giugno 1888, moriva per cancro della laringe Federico III re di Prussia ed imperatore di Germania, dopo un regno durato appena 99 giorni. Scompare all’età di soli 56 anni un monarca saggio ed illuminato, tanto amato dai liberali che affettuosamente lo avevano battezzato “unser Fritz”.  Questa triste vicenda costituì davvero un avvenimento che commosse il mondo e ciò soprattutto, per le feroci dispute tra alcuni dei più celebri medici del tempo, che non si risparmiarono i colpi bassi pur di far trionfare la propria opinione a proposito della natura del male che affliggeva l’illustre paziente.  Nel gennaio 1877, dopo un banale episodio di raffreddamento il Kronprinz Federico presenta una alterazione della voce che viene attribuita all’abuso vocale.  In marzo, però peggiora e viene chiamato a consulto il Prof. Carl Adolf Gerhardt, dell’Università di Berlino, uno dei padri della laringologia, il quale rileva un diffuso arrossamento di entrambe le corde vocali ed a sinistra la presenza di piccolo tumore che non si riesce ad sportare, anzi tende rapidamente ad estendersi. Dopo un mese di cure e inalazioni Fritz si sente molto migliorato e parte sereno per un ciclo di terapia inalatoria termale a Ems. Al ritorno dalle cure termali, però la situazione appare nettamente peggiorata. Risulta pertanto chiaro a tutti i curanti che si tratta di cancro e il paziente accetta di farsi operare. La moglie Vicky, figlia della regina vittoria, però richiede il consulto di un luminare di Londra. Il Prof. Mackenzie giunge a Postdam e visita subito il paziente. Sicuro di sé il laringologo inglese afferma non trattarsi di cancro, ma di una forma benigna. Nonostante i chirurghi tedeschi presenti siano convinti che sia stata effettuata le biopsia sulle corda vocale sbagliata, viene stabilito di curare il paziente con polverizzazioni quotidiane di un composto di morfina, bismuto, catechù (estratto di areca) e zucchero. Il Daily Telegraph che aveva iniziato a diffondere la notizia della malattia del Kronprinz esalta Mackenzie come fosse dotato di poteri taumaturgici, mentre i medici tedeschi vengono fatti apparire quasi degli incapaci.  Tutta la stampa europea parla di trionfo della medicina inglese su quella tedesca. A fine agosto dal castello di Balmoral la regina Vittoria scrive al genero: “Caro Fritz, sarei felice di decorare come cavaliere il medico che ti ha così ben curato poiché bisogna riconoscere che il dottor Morell Mackenzie ti ha veramente seguito con molta assiduità. Sono lieta che tu ti sia ripreso durante il tuo soggiorno in Inghilterra ed in Scozia…” In realtà le condizioni peggiorano e la progressione del tumore appare inarrestabile. A novembre il chirurgo inglese si arrende e concorda con i colleghi di Vienna di proporre al sovrano una laringectomia totale. Questa volta però il principe rifiuta l’intervento. Il 9 febbraio le condizioni sono talmente gravi che viene eseguita una tracheotomia per consentire al principe di respirare. Ma il tumore evolve e il 16 giugno Federico III muore.

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Come togliere l’acqua dalle orecchie

Il condotto uditivo esterno é quel canale che collega il padiglione auricolare alla membrana del timpano. Ha un andamento con due curvature, proprio come una lettera S. Se si riempie di acqua, ad esempio dopo una immersione, di solito, l’acqua defluisce da sola. In caso contrario, se rimanesse intrappolata all’interno potrebbe causare un’infezione all’orecchio spesso molto dolorosa. Questo tipo di infezione del canale uditivo esterno è definita non a caso: orecchio del nuotatore.  In realtà non é affatto difficile liberarsi dai residui liquidi nel condotto anche da soli con semplici manovre.  La manovra più intuitiva é quella di tirare delicatamente o far oscillare il lobo dell’orecchio con la testa inclinata con un movimento verso il basso e verso la spalla. Con questa tecnica, la gravità dovrebbe aiutare l’acqua a defluire dall’orecchio. Se non é sufficiente ci si può sdraiare su un fianco per qualche minuto, con la testa su un asciugamano per fare assorbire l’acqua.  Se necessario si può tentare di produrre il vuoto inclinando la testa di lato e appoggiando l’orecchio sul palmo a coppa, creando una perfetta tenuta. Un rapido movimento della mano appiattendola sul padiglione e avvolgendo l’orecchio “a coppa” mentre si allontana, sempre con il capo inclinato, richiama il liquido verso l’esterno. Può essere consigliato anche l’uso di un asciugacapelli all’intensità minima ad una ventina di centimetri di distanza dall’orecchio, muovendolo lentamente mentre si tira il lobo. Anche l’alcol può aiutare a far evaporare l’acqua nell’orecchio, è efficace anche per impedire la crescita dei batteri, che possono provocare le infezioni. Se l’acqua rimane intrappolata  a causa dell’accumulo di cerume,  anche l’aceto può aiutare a rimuoverlo. L’acqua ossigenata  può  aiutare a rimuovere detriti e cerume, che spesso trattengono l’acqua nell’orecchio. Lavare il canale dell’orecchio con semplice acqua corrente, ad esempio della doccia a temperatura del corpo, potrebbe sembrare un controsenso, ma in realtà può aiutare a far defluire l’acqua residua dall’orecchio. È sufficiente talvolta restare sdraiato su un fianco, riempire l’orecchio interessato con acqua alla temperatura del corpo usando un contagocce pulito. Dopo 5 secondi ci si capovolge, con l’orecchio interessato rivolto verso il basso. Tutta l’acqua dovrebbe defluire.

 

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I danni della cocaina

L’uso di cocaina nelle giovani generazioni, ma anche negli adulti, può portare una serie di innumerevoli disturbi sia in ambito psichico che fisico, per cui sono state emanate linee guida della Società italiana di Otorinolaringologia ad uso degli specialisti ORL, che per lo piú sono i primi a diagnosticare i danni provocati in ambito naso e gola.

Secondo le stime dell’Osservatorio Europeo per le Droghe e le Tossicodipendenze, in Europa la cocaina è la seconda sostanza più utilizzata tra la popolazione generale, dopo la cannabis. 14 milioni di persone, tra cui circa 8 milioni di giovani, hanno consumato cocaina almeno una volta nella vita. L’Italia é uno dei paesi dove se ne consuma di più assieme a Spagna, Regno Unito e Irlanda.

Il Dott. Giovanni Serpelloni Capo Dipartimento Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri fa presente che “l’uso di cocaina e la sua assunzione per via inalatoria comportano costantemente nei consumatori una lunga serie di problematiche mediche e sociali ma anche di lesioni, di vario ordine e grado, soprattutto a livello delle fosse nasali, delle strutture delle prime vie aeree e del palato. ”

Questo rappresenta un problema di enorme rilevanza sociale, fonte di vivissima preoccupazione e di negativa ricaduta per i cittadini, per le istituzioni e più in generale per l’intera comunità. Purtroppo la dannosissima, errata opinione della scarsa  nocività di alcune droghe come la cocaina e della loro presunta accettabilità e “modernità” in ambito sociale, quasi come se la droga fosse una moda lecita, accettabile ed innocua, contribuisce in modo rilevante alla diffusione di queste sostanze, non più solo tra la popolazione adulta e con disponibilità economiche, ma anche tra la popolazione giovanile che è mediamente più esposta e disponibile a comportamenti trasgressivi. Nelle linee guida ministeriali si sottolinea come in Italia, circa il 50% dei giovani 14-19 anni risulta considerare la cocaina una droga “non pericolosa”, addirittura “ben accetta”, rafforzando l’immagine del consumatore di cocaina come di una persona di successo, da valutare positivamente e da imitare.

Non é poi da trascurare che i consumatori di cocaina spesso associano anche l’uso di alcol e tabacco o di altre droghe illecite, inclusi cannabis e altri stimolanti. Specialmente questi pazienti multidipendenti presentano segni e sintomi vari che possono interessare diversi apparati: l’apparato cardio-circolatorio, il Sistema Nervoso Centrale e i meccanismi di funzionamento psichico, l’apparato respiratorio ed in particolare le prime vie naso-faringee.

Il tempo che trascorre dal primo utilizzo della cocaina al primo accesso ai servizi di cura è in media tra 6 e 8 anni. Spesso pertanto  si arriva molto tardivamente ad una diagnosi, sia dello stato di tossicodipendenza sia di eventuali altre gravi patologie correlate all’uso di tale sostanza

Frequentemente, le lesioni indotte da cocaina comportano un’ampia distruzione delle strutture di ossa e cartilagini del naso, dei seni paranasali e del palato, distruggendo le strutture esterne e interne del volto provocando devastanti lesioni con danni estetici e funzionali talvolta definitivi.

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Il dramma del re bambino

Il breve regno di Francesco II di Valois si svolse interamente in un periodo tra i più importanti della storia di Francia, quello dei conflitti religiosi, caratterizzato dalle aspre lotte per il potere tra la fazione cattolica e quella protestante, tra gli ultimi Valois e i Borboni.  Francesco II, figlio di Enrico II e di Caterina de’ Medici, era nato a Fontainbleau nel 1544 e si era dimostrato, fin dalla prima infanzia di debole costituzione e assai cagionevole di salute.  Appena quattordicenne sposò la bella Maria Stuarda, futura regina di Scozia, di un anno più anziana di lui. A soli 15 anni il 10 Luglio del 1559 salì al trono. La giovanissima età alla morte, le trame di chi approfittava del fatto che il monarca passasse la maggior parte del tempo a caccia e non a corte in un periodo di feroci lotte tra cattolici e protestanti, tra Ugonotti e Borboni, furono i motivi per cui si ipotizzò che fosse stato avvelenato.  Una analisi delle fonti storiche, tuttavia, consente di sostenere che la causa di un decesso tanto prematuro fu, nel caso del giovane Francesco, del tutto naturale e imputabile ad un ascesso del cervello come complicanza di una banale otite. Domenica 17 novembre 1560, pur essendo ormai da dieci giorni che gli esce pus dall’orecchio sinistro, il giovane re decide di effettuare una crociera sulla Loira, probabilmente per non trovarsi ad Orlèans in occasione della esecuzione del principe di Condé . In quel mese la Loira è gelata e spazzata da un vento freddissimo e, al momento dell’imbarco, il sovrano viene colto da violenti dolori all’orecchio sinistro, fortissimo mal di testa e malessere. Rientrato nei suoi appartamenti, Francesco II accusa un aumento dei dolori, febbre, vomita e perde conoscenza.  I medici di corte ritengono si tratti di una infreddatura perché il re era uscito “trop légèrment vetu”, prescrivono terapia consistente in un purgante per il giorno successivo, applicazione di ventose, revulsivi, decotto di rabarbaro, cataplasmi. Caterina de’Medici si oppone alla proposta del chirurgo di corte di ricorrere alla trapanazione del cranio per liberare dal pus la regione dietro l’orecchio che si arrossava, doleva e si gonfiava sempre più. Si prosegue con istillazioni di miscele di aceto forte e fiele di bue, ma anche di scorie di ferro in polvere sciolte in aceto forte e colla. Il sovrano adolescente muore pochi giorni dopo. La morte del sovrano nel particolare momento storico che la Francia stava attraversando in quegli anni, assunse un significato di particolare rilievo politico in quanto a tutti era noto che essa avrebbe favorito la fazione protestante e quella di Caterina de’ Medici.  Si sospettò un avvelenamento: una polvere bianca trovata sul berretto da caccia del sovrano alimentò le chiacchiere della Corte. Fu tuttavia Caterina de’ Medici a risultare la principale indiziata, in quanto appariva la persona che avrebbe tratto i maggiori vantaggi dalla morte del proprio figlio.  La nobildonna fiorentina può essere ricordata come una fine mente politica, certamente priva di scrupoli, ma non fino al punto da far assassinare un proprio figlio. La sua rigida opposizione all’intervento chirurgico sembra infatti dettata più dal timore materno nei confronti di una terapia tanto invasiva che da freddo calcolo.  L’epilogo di questa vicenda è particolarmente triste, non solo per la morte del sovrano in così giovane età, ma, soprattutto per il disinteresse totale che circondò le sue esequie.  Il corpo del re, tre giorni dopo il decesso, venne posto in una bara da oscuri servitori e fatto portare a St. Denis con la sola scorta di due gentiluomini, abbandonato dalla madre, dalla moglie, dai Lorena e dai Borboni.

 

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La disfagia

Il mondo sta invecchiando rapidamente. La popolazione mondiale di età superiore ai 65 anni dovrebbe raggiungere 1,5 miliardi entro il 2050. I disturbi della deglutizione sono estremamente comuni tra gli anziani e l’evoluzione dell’età demografica avrà un enorme impatto sul nostro sistema sanitario. Quando deglutendo “va di traverso” si parla di disfagia. La disfagia negli anziani è decisamente comune e può presentare effetti dannosi significativi sulla qualità della vita.  Un certo grado di compromissione della deglutizione, tuttavia, fa parte del normale processo di invecchiamento. Le conseguenze nei casi gravi possono però essere: malnutrizione, disidratazione, isolamento sociale, depressione, polmonite da aspirazione, ascesso polmonare e morte. Il processo della deglutizione è un’azione riflessa che noi tutti eseguiamo oltre 1000 volte al giorno. Perché tutto si svolga normalmente attiviamo 25 coppie muscolari  in modo preciso e coordinato.  Le alterazioni della deglutizione dovute all’invecchiamento iniziano dalla bocca in primis se la dentizione è scarsa o assente.  Le modificazioni della laringe e faringe attribuite all’età includono una diminuzione della sensibilità della gola, una durata prolungata della deglutizione, una chiusura ritardata della laringe e una diminuzione dell’apertura dell’esofago. La maggior parte delle persone di età superiore ai 65 anni mostra anche una significativa atrofia delle corde vocali. Ciò può avere un impatto negativo  sulla protezione delle vie aeree. Quasi il 30% della popolazione anziana, inoltre soffre di reflusso. Negli anni si arriva alla diminuzione della peristalsi, allo svuotamento esofageo ritardato e alla disfagia.  Una persona che vive fino a 80 anni farà quasi 700 milioni di respiri nella sua vita e la lassista dei tessuti  predispone alla formazione di un’ernia iatale. Oltre alle alterazioni fisiologiche della deglutizione che si verificano con l’invecchiamento, vari farmaci, frequentemente usati dagli anziani non solo diventano difficili da deglutire, ma possono effettivamente contribuire alla disfagia e alla compromissione della deglutizione. Fino al 40% degli anziani segnala difficoltà a deglutire le pillole.  Le dimensioni, la forma e la consistenza delle compresse e delle capsule influenzano la facilità di consumo.  Oggi disponiamo di attrezzature endoscopiche avanzate, fluoroscopia della deglutizione, manometria ad alta risoluzione che consentono una attenta valutazione dell’efficienza dell’atto deglutitorio. L’atrofia dei muscoli orofacciali e della lingua può migliorare con specifici esercizi logopedici. Le protesi dentarie aiutano a migliorare la capacità di masticare un bolo di cibo.  Il reflusso acido è facilmente curabile con modifiche dietetiche e dello stile di vita, antiacidi e alginati, farmaci antisecretori e riparazione chirurgica dell’ernia iatale in casi selezionati.

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Il naso e il sesso

Un monaco gotico del VI secolo, Giordano, ci descrive come Attila, l’unno famigerato e spietato barbaro (che fu tra le cause della caduta dell’Impero Romano), morì  nel 453 d.C per una gravissima perdita di sangue dal naso nel corso della prima notte di nozze. Aveva infatti appena sposato la sua ultima moglie, la bella e giovane Ildico. Al mattino, le guardie entrarono nella sua stanza e lo trovarono morto nel suo letto, il viso coperto di sangue, accanto alla moglie sconvolta accanto a lui. I suoi compagni guerrieri condivisero il loro dolore facendosi dei tagli sul volto, per significare che un valoroso guerriero dovrebbe essere pianto col sangue degli uomini e non dalle lacrime delle donne. 

Alcune persone presentano epistassi, anche copiose che compaiono facendo sesso.  Sicuramente i valori della pressione sanguigna che si alzano per qualunque attività fisica giocano un ruolo determinante. Nel 1998, però, tre biochimici hanno vinto un meritato premio Nobel per aver scoperto che l’ossido nitrico viene rilasciato come messaggero chimico nel flusso sanguigno all’erezione del pene e che questo provoca anche la distensione del tessuto erettile nei corpi dei turbinati nasali. Il meccanismo sia nel naso che nei genitali consiste in un improvviso rilassamento del tono negli sfinteri arterovenosi. Ne consegue un abbondante afflusso di sangue e anche un aumento della temperatura superficiale dei turbinati fino a 4,5°C durante l’orgasmo.  

Questo fenomeno é ben documentato anche nella tradizione delle stampe erotiche giapponesi chiamate Shunga, disegnate nel XII secolo su pergamene dai monaci buddisti. Il grande xilografista, Hokusai, meglio conosciuto per il suo quadro iconico, The Wave, ha pubblicato anche un intero libro di stampe Shunga. Il genere rivive nei moderni fumetti Manga, che possono includere scene sessuali anche esplicite. Nel linguaggio visivo simbolico di Manga, un’improvvisa e violenta emorragia nasale indica che la persona sanguinante è sessualmente eccitata. 

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Le vertigini di Martin Lutero

Le lettere di Martin Luther sono aperture al suo mondo interiore ma anche alle sue malattie, di cui parlava ampiamente. Per questo le malattie di Martin Lutero sono ben note e documentate.  La maggior parte delle sue malattie erano comuni e i suoi medici le interpretavano correttamente: calcoli alla vescica, stitichezza cronica, emorroidi. La causa di morte di Luther è stata causata certamente da un infarto miocardico. Durante gli ultimi 19 anni della sua vita, oltre a queste “malattie naturali”, Lutero soffrì anche di attacchi ricorrenti di una sintomatologia peculiare. Lo stesso Lutero e i suoi amici la consideravano non una “malattia naturale”, ma Satana che gli prendeva a pugni la carne. Si manifestava infatti ad ondate. Il primo di questi attacchi avvenne il 6 luglio 1527, quando Lutero aveva 43 anni. Cominciò con un insopportabile acufene nell’orecchio sinistro, che aumentò drammaticamente e sembrò diffondersi alla metà sinistra della sua testa. Negli anni successivi, la malattia si presentò con ripetuti attacchi sempre preceduti da acufeni di intensità crescente, e poi seguiti da vertigini che lo costringevano a immobilità con nausea, malessere generale e spesso anche vomito per diverse ore. L’ultimo episodio, insorto nel 1541, avvenne nel corso di una otite bilaterale con grave compromissione dell’udito, recuperato soltanto dopo la cessazione della fuoriuscita di pus dall’orecchio. Questi episodi si associavano spesso a una cefalea molto fastidiosa. La diagnosi é quella di un disturbo dell’organo dell’equilibrio chiamato malattia di Ménière. Dalle lettere si comprende come il sintomo che più disturbava Luther erano gli acufeni. Essi si manifestavano con tonalità, intensità e localizzazione molto diverse, come si desume dai molteplici termini latini impiegati per descriverli: “sonitus, capitis susurrus, ventorum turbines, aurium tinnitus, venti in capite”. Questo tormento fu dichiarato “assolutamente insopportabile” in più occasioni.

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I tormenti di Goya da vecchio

Nella produzione di Goya possiamo individuare, grosso modo, due periodi: il primo, quello dell’affermazione del suo valore, che com- prende il periodo degli arazzi e dei ritratti; il secondo, quello della libertà espressiva, che è caratterizzato da una multiforme produzione di capolavori che va dalle Majas, alle Pitture nere. Questo secondo periodo porta il segno di una grave malattia, forse la lue contratta in gioventù, che lo portò alla sordità completa, dopo un inizio acuto incominciato all’età di 46 anni.  Goya, pittore di corte a fine ‘700, dipinse la società del suo tempo; i suoi soggetti spaziano dalla dolcezza dei bambini alla sensualità delle Majas, dall’orrore dei mostri prodotti dalla fantasia, non più controllata dalla ragione, alla pensosa severità delle sue donne che non sorridono mai, dalla atrocità delle scene di guerra alla violenza della tauromachia. Quando si rese indipendente dalle committenze, la sua opera pittorica si liberò dai vincoli e allora comparvero mostri, streghe, scene di violenza e tutto il bagaglio fantastico legato alle ansie, inquietudini, ed incubi che furono parte integrante della sua personalità. In alcuni suoi quadri il clima della follia è ritratto alla perfezione.  Nel novembre 1792 Goya si ammalò gravemente in Siviglia; lamentava cefalea, vertigini, acufeni, sordità e disturbi della vista, paresi al braccio destro. Ne conseguí uno stato di depressione accompagnato da atteggiamento stuporoso con allucinazioni e deliri. Molto si è discusso sulle cause di questa grave infermità. Si ipotizzò una encefalopatia luetica, oppure mercuriale da trattamento antiluetico, o ancora da piombo contenuto nei colori che maneggiava. La sordità si aggrava e dopo il 1793 il modo di dipingere di Goya si modifica, i soggetti trascendono la realtà e acquistano tonalità sempre più fantastiche e drammatiche. Se vogliamo dar credito all’ipotesi che la malattia del grande pittore sia stata, almeno in parte, dovuta a fatti tossici legati alla sua attività professionale, dobbiamo ricordare che tra i pigmenti di origine minerale usati per ottenere colori erano soprattutto quelli contenenti piombo a possedere la maggiore tossicità. L’assorbimento prolungato di questo metallo attraverso la pelle o le vie respiratorie può produrre, nel lungo periodo, una lenta intossicazione, responsabile di danni neurologici, intestinali e sensoriali.

 

 

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L’orecchio di Van Gogh

Nel Novecento pochi pittori hanno saputo esprimere i loro conflitti interni come Van Gogh, e suscitare universali consensi. La mutilazione dell’ orecchio sinistro, che dal punto di vista della storia della otorinolaringoiatria è un accidente, nella tormentata vita del pittore è del tutto marginale, rispetto alle cause del disagio esistenziale che lo portò al suicidio due anni dopo. L’amputazione, che diede a Van Gogh lo spunto per dipingere l’autoritratto, in cui egli si ritrae con l’orecchio bendato, è un evento che consegue alla malattia mentale, che è la causa del suo malessere. È la psicosi, di cui lui è portatore e vittima, che domina la scena dei suoi ultimi anni di vita e che condiziona la sua produzione artistica. In una delle sue innumerevoli lettere al fratello scrive: “sono assolutamente certo che come pittore non rappresenterò mai nulla di importante… A me non è consentito vivere, soffrendo così spesso di vertigine, se non in una posizione di quarto, quinto rango”. Van Gogh è un esempio dello stretto rapporto tra malattia e arte, della fusione delle alterazioni mentali con la pittura, i colori, le forme, dell’influenza reciproca di genio e follia.  Una sera al caffè, senza motivo apparente, Vincent scagliò contro Paul Gauguin un bicchiere di assenzio. La sera dopo gli andò incontro per la strada minacciandolo con un rasoio in mano. Gauguin, di conseguenza, decise di andarsene. Vincent, rimasto solo e disperato, sfogò su se stesso tutta la sua violenza, tagliandosi parte dell’orecchio sinistro e portandolo a Rachel, una prostituta amica. Il mattino dopo, il postino Joseph Roulin trovò Vincent a letto sanguinante e lo fece ricoverare all’ospedale di Arles. Ma perché si inferse la mutilazione proprio all’orecchio? Probabilmente perché sede di insopportabili allucinazioni uditive: Vincent, infatti, sentiva le voci.  Nel maggio 1889 Van Gogh si fece ricoverare per l’ennesima volta nel manicomio di Saint Remy. Per un po’ di tempo le giornate passarono in silenzio e inattive, poi egli riprese a dipingere, nacquero altri capolavori e alcuni drammatici autoritratti. Il 27 luglio 1890, in mezzo ai campi con cavalletto e pennelli, in preda ad una ennesima crisi, si sparò un colpo di pistola al petto. Non morì sul colpo e si trascinò fino a casa, dove morì due giorni dopo.

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La tosse e il reflusso

Non é facile riconoscere il reflusso come causa della tosse, ma non é nemmeno semplice escluderlo. Proprio per questo motivo è possibile che il reflusso faringolaringeo sia diagnosticato in maniera impropria e eccessiva. Quali sono quindi le caratteristiche che devono orientare la diagnosi nel caso di tosse persistente con auscultazione polmonare negativa? I disturbi causati dal reflusso silente o atipico sono sintomi dovuti a minime quote di gas e acidi gastrici che risalgono dallo stomaco e vanno ad irritare la laringe, dove attivano i recettori della tosse. Caratteristica é la comparsa della tosse soprattutto al termine di una espirazione forzata. Si tratta per lo piú di sintomi invernali soprattutto in concomitanza di infezioni virali, come raffreddore e influenza, che causano un’infiammazione delle alte vie aeree, apportando un danno alla loro integrità epiteliale. In questi casi, anche un quantitativo minimo di gas o acidi gastrici è sufficiente per irritare le mucose. Lo si può paragonare a qualche granello di sale che, sulla pelle sana non crea nessun problema, ma su una ferita anche superficiale é causa di una irritazione molto dolorosa. Dobbiamo pertanto in questa stagione trattare sia il reflusso che la causa infettiva. Per combattere il primo ricorriamo ai cosiddetti PPI ( che sono piú indicati nel reflusso classico che provoca bruciore di stomaco e retrosternale) e soprattutto ai farmaci cosiddetti “di barriera”. La tosse da reflusso atipico è quasi sempre scatenata da episodi infettivi virali, pertanto non richiede antibiotici. Nelle forme virali l’antibiotico non risulta efficace, non fa passare la tosse, e spesso rischia di causare farmaco-resistenze o effetti indesiderati. Non si sottolinea mai abbastanza che, per chi soffre di reflusso atipico, è molto importante la dieta: il consiglio è quello di evitare caffè, cioccolato, fritti, agrumi, pomodoro (anche come base per la preparazione di sughi) e alcolici, in particolare il vino bianco frizzante. Altro aspetto fondamentale è quello di limitare prevenendole le infezioni virali che rendono le mucose delle vie aeree maggiormente suscettibili a fattori  irritativi. La raccomandazione è quella di proteggersi con il vaccino antinfluenzale e con immunostimolanti, cercando di evitare raffreddamenti durante la stagione invernale e di respirare il più possibile con il naso per filtrare, riscaldare e depurare l’aria che entra nelle nostre vie aeree.

 

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La breve malattia di George Washington

Il primo presidente degli Stati Uniti nel 1796, allo scadere del suo secondo mandato, decise di non ripresentarsi, pubblicò un messaggio di commiato alla nazione americana e si ritirò nella sua tenuta a Mount Vernon in Virginia dove morì il 14 dicembre 1799, dopo una malattia acuta durata soltanto 21 ore.  George Washington  in gioventù fu affetto da vaiolo e da malaria e, per queste malattie si sottopose a trattamenti prolungati con ossido di mercurio. Fu proprio questo farmaco a causare in lui sterilità (ebbe solo figli adottivi) ma soprattutto gli innumerevoli problemi ai denti ed alla gola che lo afflissero per tutta la vita. A soli 22 anni perse il suo primo dente e gli altri seguirono e in breve tempo, nel 1789, quando divenne Presidente, gliene rimaneva uno solo. Washington cambiò un gran numero di dentiere,  in genere costituite da una base di avorio su cui venivano fissati denti umani legati tra loro da filamenti d’oro. Confrontando i suoi ritratti nel tempo si può apprezzare la asimmetria della parte inferiore del volto, tanto per la protesi, ma anche per le ricorrenti infezioni (stomatiti) che si accanivano nella sua bocca.  Il 12 dicembre 1799, dopo avere ispezionato a cavallo la sua fattoria sotto una pioggia gelata, rientrò a casa per la cena senza cambiarsi gli abiti bagnati. Il giorno dopo accusò un leggero mal di gola, simile a tante altre volte. Nella notte, tra le 2 e le 3, però, si svegliò con difficoltà del respiro e dolore alla deglutizione. Al mattino, avvertendo il peggioramento, fece chiamare il suo fattore e gli ordinò di praticargli un salasso, trattamento in grande uso a quel tempo per qualsiasi genere di malattia. Verso le 10 arrivarono i medici curanti e, tenuto conto dei sintomi: dolore alla gola, difficoltà alla deglutizione e alla respirazione e dolore nel parlare, emisero diagnosi di “inflammatory quinsy”: ostruzione delle vie respiratorie che può portare a soffocamento. I due medici ordinarono un più generoso salasso, anche questo senza miglioramento dei sintomi. Dopo un terzo infruttuoso salasso,  alle 3 del pomeriggio arrivò un giovane medico, di cui i curanti avevano grande stima che, dopo aver esaminato l’illustre paziente, si ritirò a consulto con i due anziani colleghi, proponendo loro di eseguire una tracheotomia. L’anzianità dei due curanti però ebbe la meglio e l’accordo che i tre medici raggiunsero fu di praticare un quarto salasso. Furono estratte 32 once di sangue – quasi 1 litro – che, aggiunto ai precedenti prelievi, porta a quasi 2 litri la perdita ematica totale. Il malato si indebolì ulteriormente. Alle 8 di sera furono applicati dei vescicanti alle gambe e posto un collare di crusca alla gola. Alle 10 il respiro si fece sempre più lieve,  alle 11,30 sopravvenne la morte. Oggi sappiamo che l’unica soluzione possibile per evitare l’asfissia sarebbe stata la tracheotomia, intervento noto fin dall’antichità, ma praticato per secoli soltanto all’ultimo istante, quale estremo tentativo poco prima che il paziente esalasse l’ultimo respiro. In queste condizioni il rischio di mortalità intraoperatoria diventava elevatissimo (>70%) per cui pochissimi chirurghi avevano il coraggio di eseguirla.  La mortalità da tracheotomia sarebbe discesa in maniera significativa soltanto dopo le numerose esperienze sui difterici (1821-22) e soprattutto dopo la definitiva codificazione dell’intervento nel 1850.

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L’astronomo dal naso d’oro

Tycho Brahe nacque il 14 Dicembre 1546 in Danimarca, nella regione della Scania, oggi  in territorio svedese. Discendeva da una nobile famiglia, con una lunga tradizione di disciplina militare e il padre era il governatore del castello di Helsingborg, situato di fronte al castello di Helsinore, ove fu ambientata la vicenda dell’Amleto di Shakespeare.  Il piccolo Tycho rimase nella sua famiglia naturale solo per poco tempo perché all’età di un anno venne adottato dallo zio paterno Jørgen Brahe, vice-ammiraglio e comandante del castello di Tostrup. Dalla sua autobiografia apprendiamo che Tycho visse tale evento come una sorta di rapimento. Seguendo i desideri dei genitori adottivi e, soprattutto di zia Inger, Tycho venne avviato agli studi umanistici: latino, filosofia e retorica. Un evento naturale però avrebbe segnato la sua vita e la storia dell’astronomia. Il 21 Agosto 1560, alle ore 13, nel cielo di Copenhagen vi fu un’eclissi solare parziale. Il quattordicenne Tyge fu letteralmente rapito dal fenomeno naturale. L’entusiasmo fu tale da convincere i professori di Tycho, a spronarlo nello studio scientifico dell’astronomia. Proseguí gli studi all’università di Leipzig, si rese conto di come un vero astronomo necessitasse di un’adeguata attrezzatura e cominciò ad acquistare quanto di meglio offriva il mercato ma, non soddisfatto, iniziò a progettare ed a costruire in proprio strumenti astronomici.  Il 10 dicembre 1566, quattro giorni prima del suo ventesimo compleanno, Tycho fu invitato ad una festa di nozze dove era ospite anche un altro esponente della nobiltà danese: Manderup Parsberg. Tra i due, accomunati dall’età, dalla nazionalità, dallo status aristocratico e dalla focosità di temperamento, originò una accesa discussione, relativa a chi dei due avesse maggior talento matematico. Il diverbio presto degenerò in una vera e propria rissa ed i due contendenti arrivarono a sfidarsi a duello.  Il 29 Dicembre 1566 ebbe luogo il duello all’arma bianca. Nell’oscurità, alle 19 della sera Manderup colpì Tycho con un fendente all’altezza del naso, provocandogli l’amputazione praticamente completa della piramide nasale.  Tycho decise che il suo aspetto andasse reintegrato con una protesi. Quelle più diffuse dell’epoca erano realizzate in cera ed andavano mantenute in sede con sistemi di ritenzione comunque visibili, in genere uncini e cordoncini di seta. Tycho desiderava, invece, un dispositivo che si potesse camuffare quanto più possibile e, soprattutto, che rimanesse in sede, senza necessità di fissaggi esterni. Egli fece, pertanto, approntare un’epitesi metallica, realizzata con una lega d’oro e d’argento. Tycho divenne abilissimo nell’alloggiare la sua epitesi, che manteneva in sede con una sorta di pasta collante. Per il resto della sua vita egli non si separò mai da una piccola scatola, all’interno della quale conservava paste collanti e di pulizia per il suo “naso d’oro”.

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i cibi e le allergie respiratorie

Si chiamano allergie crociate o cross reazioni. Parliamo della comune allergia ai pollini (che provoca soprattutto in questi giorni sintomi a carico dell’apparto respiratorio) che, nei soggetti predisposti, si “allarga” manifestandosi anche sotto forma di allergia alimentare. I cibi che possono provocare avverse reazioni immunitarie sono molti, e sono quelli in cui siano presenti gli stessi allergeni di alcune piante. Anche chi è allergico agli acari della polvere deve stare attento ad alcuni cibi. Le persone soggette alle allergie respiratorie o agli acari nella stragrande maggioranza dei casi soffrono, durante le fasi acute della loro reazione immunitaria, di rinite, congiuntivite e asma bronchiale con disturbi che includono naso congestionato, che cola, occhi rossi e lacrimazione accentuata, tosse e mancanza di respiro. Accanto a questi tipici sintomi che vengono tenuti a bada attraverso la somministrazione di cortisonici e antistaminici, possono però insorgere altri disturbi a seguito dell’ingestione di alcuni specifici alimenti. In questo caso, ovvero di reazione allergica di origine alimentare, è più probabile si manifestino sintomi tra cui:  gonfiore delle labbra, del palato e della gola, prurito, senso di calore, orticaria, diarrea. Nei casi più gravi, e per fortuna rari, si può manifestare uno shock anafilattico ma in genere i malesseri sono più lievi e regrediscono nel giro di poche ore. Quali sono gli alimenti “pericolosi ” per ciascun tipo di allergia?

•Allergia alle graminacee: attenzione a kiwi, melone, anguria, agrumi, pomodori, patate, melanzane, pesche, albicocche, ciliegie, mele, mandorle, arachidi, prugne.

•Allergia all’ambrosia: banane, angurie, meloni, camomilla, zucca e sedano.

•Allergia all’artemisia e piante composite (tarassaco, camomilla, elianto o girasole): camomilla, cicoria, tarassaco, prezzemolo, finocchio, sedano, carote, meloni, angurie, zucca, mele, banane, anice, cumino, coriandolo e semi di girasole.

•Allergia alla betulla: mele, pesche, albicocche, nespole, lamponi, fragile, ciliegie, banane, noci e nocciole, mandorle, arachidi, pistacchi, carote, patte, finocchio, sedano.

•Allergia gli acari della polvere: crostacei, lumache di terra e di mare cozze e mitili in genere.

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La voce di Nicoló Paganini

Nicolò Paganini, nato a Genova nel 1782, lasciò un’impronta indelebile nella storia della musica strumentale, e nella vita sociale del primo Ottocento. Egli infatti fu l’espressione più vera della sintesi tra genio e sregolatezza.  La sua incapacità di risparmiarsi nei concerti era essenzialmente determinata da uno stato di perenne sovreccitazione, dall’orgoglio e dall’ambizione di voler sempre superare se stesso. È noto che nella foga dell’esecuzione musicale poteva capitargli di rompere una, due o tre corde del violino, continuando a suonare la stessa difficilissima musica su una corda sola. Nel 1832 riuscì addirittura a tenere in soli tre mesi 65 concerti in 30 diverse città d’Europa.  A partire però dal 1828, la salute di Paganini divenne sempre più cagionevole a causa di manifestazioni morbose della più varia natura che si susseguirono e si sovrapposero nel tempo, lasciandogli periodi sempre più brevi di relativo benessere, fino a costringerlo, nel 1837, a rinunciare del tutto ai suoi concerti. Tra le varie manifestazioni morbose che afflissero Paganini, una in particolare lo avvilì e lo tormentò negli ultimi anni della sua vita: una grave raucedine che gli impediva di parlare in modo comprensibile.  Berlioz scrive: “Causa la malattia della laringe egli aveva completamente perduta la voce e solo suo figlio poteva udire o piuttosto indovinare le sue parole…”. Il figlio Achille, allora tredicenne, accostando l’orecchio alla bocca del padre fungeva infatti da interprete: una situazione straziante che si protrasse fino alla morte del grande artista avvenuta a Nizza il 15 maggio 1840. I dati biografici raccolti ci permettono di ipotizzare che la più probabile causa della grave disfonia, che afflisse Paganini negli ultimi anni della sua vita, fosse una localizzazione alle corde vocali della tubercolosi polmonare di cui soffriva.

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EFFETTO NOCEBO

Stiamo assistendo al diffondersi di una immotivata diffidenza nei confronti dei vaccini, in particolare di quelli anti covid. Tale sfiducia é fortemente influenzata tra l’altro dal fatto che molti vaccinati riferiscono effetti collaterali, per fortuna lievi e transitori. In antitesi con l’ormai notissimo effetto placebo, non va trascurato di riflettere su un fenomeno speculare: l’effetto “nocebo”. Con questo termine si intende un evento avverso, non dovuto alla terapia, ma “prodotto” dalle aspettative negative del paziente. Il termine  deriva dal latino nocere e significa: nuocere, danneggiare. “Placebo e nocebo sono i due lati della stessa medaglia e rappresentano un complesso fenomeno non solo neurobiologico ma anche psicologico, in cui modifiche a livello neurofisiologico e comportamentale si realizzano a seguito della somministrazione di una terapia”. Gli psicologi lo spiegano così: “alcune caratteristiche personali del paziente, tra cui la tendenza a catastrofizzare, una personalità pessimistica, elevati tratti e stati ansiosi, sembra favoriscano risposte nocebo”. Inevitabile pensare che un effetto del genere sia stato alla base di molti disturbi accusati da persone sottoposte al vaccino anticovid. Se ne sono occupati molto bene studiosi di Boston, Marburg, New York in un articolo sul YAMA, una delle più prestigiose riviste mediche. Essi sono partiti da una semplice domanda: quale é stata la frequenza degli eventi avversi nei gruppi trattati con placebo degli studi sul vaccino COVID-19? La sperimentazione di vaccini si é ottenuta vaccinando un certo numero di persone con vaccino reale e altrettanti con placebo. Studiando questi ultimi, si sono contati coloro che, convinti di essere stati vaccinati, hanno dichiarato di aver avuto dei disturbi. Lo studio, davvero corposo ha coinvolto 45 380 persone sottoposte a vaccino anticovid-19  (22 578 riceventi di placebo e 22 802 il vaccino). Dopo la prima dose, il 35,2%di coloro che hanno ricevuto placebo ha sperimentato effetti collaterali tra cui cefalea e affaticamento tra i più comuni. Dopo la seconda dose, la percentuale é scesa lievemente, ma comunque ancora un 31,8%  ha segnalato disturbi sistemici. Inevitabilmente sono stati maggiormente i destinatari del vaccino a lamentare gli eventi avversi, ma la differenza tra i due gruppi, soprattutto per gli effetti collaterali sistemici (mal di testa, spossatezza) era molto piccola, soprattutto dopo la prima dose.

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Gulliver e le vertigini

Jonathan Swift, nato in Irlanda nell’anno 1667 da padre e madre inglesi, autore de: “i viaggi di Gulliver”, può essere considerato come uno dei maggiori scrittori della letteratura inglese. Non godeva di una salute particolarmente stabile, tanto che ispirò il contemporaneo T.G.Wilson che scrisse: “Swift and the doctors”, in cui è possibile ricostruire il percorso patologico dello scrittore irlandese affetto tra l’altro da una sindrome vertiginosa particolarmente invalidante. Gran parte della sua vita fu caratterizzata da un quadro clinico caratteristico della malattia di Ménière; praticamente con una durata di ventitré anni.  Il 20 novembre 1733 in “Letters of Jonathan Swift to Charles Ford”, esiste un riferimento al fatto che i Dottori avevano avanzato l’ipotesi di una correlazione tra il sintomo sordità ed il sintomo vertigine; nella stessa occasione l’autore irlandese si rammarica del fatto che, anche se nel ricettario londinese erano presenti dei suggerimenti terapeutici per entrambi i sintomi, nessun medico glieli avesse prescritti.  In pratica i medici di allora imputavano la sua ipoacusia d una forma di sordità cerebrale derivante da una malattia cronica del cervello o del suo rivestimento, caratterizzata da vertigine, disturbi di stomaco e da un interessamento più in generale dello stato di salute e  gli fu più volte suggerito e praticato suggerisce un salasso alla nuca, naturalmente senza alcun miglioramento dei sintomi.  All’età di settanta anni, Swift afferma con disillusione e amarezza che, pur avendo stimato nella sua vita molti medici, con i quali aveva avuto rapporti professionali, non ha mai ricevuto il minimo beneficio dai loro suggerimenti terapeutici e dalle loro prescrizioni. Il professor Prosper Ménière descrisse questa sindrome molto più tardi nel 1861 riportando esattamente i sintomi che molte volte Jonathan Swift aveva descritto ai medici dell’epoca perché lo aiutassero.

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Le orecchie sporche

Un po’ di cerume fa bene alle orecchie, sono tentato spesso di correggere i miei pazienti quando parlano di orecchie “sporche” o di: “pulire la orecchie”.   Il cerume, un prodotto dei nostri condotti uditivi di cui molti di noi preferirebbero fare a meno, è in realtà una sostanza piuttosto utile, nelle corrette quantità. È un detergente naturale poiché si muove dall’interno del condotto uditivo verso l’esterno, raccogliendo cellule morte della pelle, capelli e polvere lungo il percorso. È dimostrato che ha proprietà antibatteriche e antimicotiche. L’assenza di cerume provoca, al contrario, prurito e disagio.  Un condotto uditivo ostruito dal cerume, d’altra parte,  può essere causa di dolore, infezioni e altri problemi. Poche gocce d’acqua sono spesso tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sbarazzarci di un tappo di cerume. Se poi si deposita in alcuni punti particolari,  può causare accessi di tosse stimolando il ramo del nervo vago che innerva l’orecchio esterno. Inoltre naturalmente un eccesso di cerume può provocare una discreta perdita dell’udito.   La cosa che molte persone fanno erroneamente è provare a rimuovere la cerume con un batuffolo di cotone, che tende però a spingerlo in profonditá. Invece, é più prudente  gocciolare della semplice acqua naturale, oppure  soluzione salina o acqua ossigenata nell’orecchio con la testa inclinata in modo che l’apertura dell’orecchio sia rivolta verso l’alto. Va mantenuta questa posizione per qualche minuto per consentire alla gravità di spingere il fluido verso il basso attraverso il cerume. Quindi si inclina la testa dall’altra parte e si lascia defluire il liquido e il cerume sciolto. Si può  anche ricorrere ad una siringa piena di acqua  e irrigare prudentemente l’orecchio.       Il cerume si forma nel terzo esterno  del condotto uditivo, mai vicino al timpano. Quindi, quando c’è un accumulo in profondità, è spesso il risultato di tentativi di rimozione falliti.   Gli apparecchi acustici, che bloccano la normale migrazione del cerume fuori dall’orecchio, possono anche stimolare le ghiandole del condotto uditivo a produrre più secrezioni. Secondo alcuni, tra il 60% e il 70% degli apparecchi acustici inviati per la riparazione sono danneggiati dal cerume. Entra negli sfiati e nei ricevitori e l’acidità ne degrada i componenti.

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L’ARIOMA, il covid dei nostri nonni

C’è una malattia che mi ha terrificato fin da bambino, perché la citava mia nonna, e minacciava che l’avrei contratta se non mangiavo. Piú avanti nel tempo l’ho dimenticata, anche perché non l’ho mai ritrovata sui libri di studio.  L’ho ricercata però di recente e l’ho ritrovata citata nel blog di Duccio Canestrini: ” in Trentino esiste una patologia regionale che non figura nei libri di medicina. E’ il caso dell’arioma, o rioma, una misteriosa infermità che affliggerebbe soprattutto i bambini e sconcerta ancora i medici condotti.  Era così definita una malattia della prima infanzia non meglio conosciuta, che si manifestava con convulsioni, eruzioni cutanee e uno strano colore delle feci ed era il principale motivo di morte in età infantile”. Elia Andreoli, dottorando a Verona, ha scoperto che la malattia ha determinato attorno al 1769 il decesso di ben 266  bambini,  solamente in una piccola frazione di 500 anime del veronese e vi ha scritto la sua tesi per la laurea. Una malattia epidemica come il Covid? Dalla tesi leggiamo che «solo parte dei tantissimi neonati raggiungeva il primo anno di età; ancor meno i 5 anni e poi l’età adulta: il 41 per cento dei morti totali è deceduto entro il primo anno di vita; il 15 per cento entro i primi 5». E aggiunge: «Impressionante rilevare l’altissima mortalità infantile e vedere che la causa era “arioma”». La descrizione più completa si trova sul vocabolario del dialetto trentino di Elio Fox che alla voce arioma riporta: “convulsione, spasimo, tremito nervoso, malore, crisi convulsiva (dei bambini)” e prosegue con le note di storia delle terapie che venivano intraprese a base di “ont per l’arioma”. Si trattava di un unguento ottenuto con un pizzico di corno di cervo pestato, un pugnetto di anice, due fette di limone, il tutto bollito in olio. Altri massaggiavano sulla pelle del bambino “certi grassi e grossi lombrichi, che in certe occasioni ed in specialissimi modi si estraggono dai letamai.”  Con il tempo, il significato del termine arioma é mutato  e più che un problema specifico di interesse pediatrico, definisce oggi uno stato di agitazione psicomotoria, “esplicitato per esempio nella parlata dialettale: Tasi ‘n moment che te me fai vegnir l’arioma”. Un termine che oggi in italiano potrebbe corrispondere ad ansia, ma anche confusione, comunque un malessere piuttosto mal definito.

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Quando il demone arriva di notte

“Nel mezzo della notte mi sono svegliato. Con l’angolo dell’occhio potevo vedere una figura scura accanto al mio letto. Sembrava aprisse la bocca. Sentivo una grande pressione sul mio petto. La stanza era attraversata da onde elettriche. Le mie orecchie ronzavano, si poteva sentire un terribile stridore. Volevo urlare, ma non riuscivo”. Questa é la descrizione del più angosciante di tutti gli incubi: la paralisi del sonno. Lo racconta un bambino di 12 anni che continua: “Un tempo era la mia più grande paura, ma a un certo punto l’ho sconfitto. Con tutte le mie forze mi sono sollevato contro questa grande pressione sul mio corpo. Con le mani tremanti, a un certo punto sono riuscito a accendere l’interruttore della luce accanto al mio letto. Così é finito tutto. Ora sapevo come sconfiggerlo”. Il demone e il terrore erano spariti. “Quando ho parlato a mia nonna delle terrificanti visite notturne, lei ha detto semplicemente: «oh tesoro, la trut ti ha visitato»”. Una leggenda popolare racconta che un demone visita i giovani di notte per sottrarre la loro energia vitale. La scienza ha un’altra spiegazione per il fenomeno: i medici ne parlano definendolo paralisi del sonno. I muscoli del nostro corpo sono normalmente paralizzati in una precisa fase del sonno: la fase REM. Si tratta di una protezione, che aiuta a garantire che i movimenti del sogno non vengano effettivamente eseguiti. Solo i muscoli oculari sono esclusi da questo. Al risveglio, la paralisi si dissolve. Talvolta, tuttavia, può succedere di sperimentare consapevolmente questa paralisi. Questo di solito accade poco prima di addormentarsi o al risveglio. Le persone colpite possono avere la sensazione di soffocare perché la loro respirazione non è percepita e sentono una forte pressione sul loro petto. Circa un terzo delle persone colpite ha anche allucinazioni visive e uditive.
Le storie di questi terribili visitatori notturni sono state tramandate in tutto il mondo per secoli. Il pittore svizzero-inglese Johann Heinrich Füssli diede un volto al demone nel 1781 nel dipinto «Der Nachtmahr». In Alto Adige i nostri  nonni  la chiamano la Trut , in Norvegia si chiama «svartalvarvar», in Botswana «Sbeteledi», «Hauka’l po» nelle Hawaii. Negli Stati Uniti si parla di “Shadow People”.
La paralisi del sonno è un disturbo comune e viene chiamata in medicina paralisi ipnagogica, si manifesta almeno una volta dal 40% della popolazione generale. Beh, se  dovesse capitare state tranquilli: non si può morire di paralisi del sonno, non è mai successo. Dopo il grande spavento si può tornare alla propria vita in tranquillità con la consapevolezza che se dovesse capitare di nuovo si saprà gestire meglio la situazione.

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Ascoltiamo la nostra voce

Mentre l’udito consiste nella ricezione passiva del suono, l’ascolto è il processo attivo di sintonizzazione su quei suoni che desideriamo ricevere, e di esclusione di quelli che non desideriamo sentire. L’ascolto implica tanto la percezione dei suoni esterni che di quelli della nostra stessa voce. Nelle prime fasi dell’acquisizione del linguaggio, i bambini ricevono il suono dall’ambiente circostante. In seguito cominciano a “scegliere”, uditivamente parlando, quei suoni che hanno un significato come “mamma, papà, latte, succo”, e così inizia il  processo di ascolto. In seguito, da più grandicelli,  rimodellano questi suoni con la propria voce modellandoli su ciò che hanno sentito (processo definito auto-ascolto). Questo stesso processo é quello che si attua nell’acquisizione del canto, che la maggior parte dei bambini padroneggia con facilità e grazia. Per molti bambini, il canto viene acquisito prima e più velocemente della parola.  In poche parole, imparare a cantare allena anche la nostra capacità di ascoltarci cantare. Questa abilità richiede la messa a punto e il rafforzamento del controllo uditivo della voce. Qualsiasi carenza che comprometta la precisione, la chiarezza e il tempo nel controllo audio-vocale, può influenzare direttamente e inconsapevolmente alcuni aspetti della qualità della voce nel canto. Queste carenze possono causare problemi come difficoltà nel riconoscimento corretto del suono o una distorsione  della percezione uditiva. Nelle forme più severe di alterazione di questo controllo automatico si arriva a cantare stonati. Difficoltà più lievi, indotte dall’ascolto impreciso si traducono in una riduzione dell’estensione vocale, nella perdita di controllo sull’intensità della voce o difficoltà nel “mantenere il ritmo”.

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kintsugi: le cicatrici preziose

Se una ciotola o un vaso ci cade dalle mani e si rompe in mille pezzi, li buttiamo via con dispiacere. La sensibilità giapponese ha sviluppato dal 1400 l’arte  di  valorizzare le rotture nobilitando l’oggetto rotto per riutilizzarlo nella cerimonia del the. Si chiama kintsugi, e contiene le parole: 金継ぎ, cioè “oro”  e “riparazione”. Questa arte tradizionale giapponese utilizza lacca urushi ricoperta da  oro o argento per riunire i pezzi dell’oggetto di ceramica rotto e restituirlo alla sua funzione originaria. L’aspetto definitivo é diverso ma spesso più raffinato. Ogni pezzo riparato è unico, per la casualità con cui la ceramica si frantuma e per i motivi irregolari formati che si evidenziano e si esaltano con l’uso dei metalli.

Riparando gli oggetti rotti è possibile ridare nuova vita a una ceramica che diventa ancora più preziosa grazie alle sue “cicatrici”. L’arte giapponese del kintsugi insegna che gli oggetti rotti non sono qualcosa da nascondere ma da mostrare con orgoglio.

Anche le cicatrici sul nostro corpo dovrebbero essere valorizzate e non nascoste.

Abbiamo tutti delle cicatrici. Cicatrici che riceviamo per caso, cicatrici che ci provochiamo, cicatrici che ci salvano la vita, cicatrici che danno vita. Taglio cesareo,  interventi chirurgici, incidenti: raccontano le nostre storie. Ci rivelano tanto sulla storia di una persona, sono dimostrazioni della nostra forza e resilienza.

La British Skin Foundation ha rilevato che il 72% delle persone con cicatrici visibili come l’ acne del volto, afferma che influiscono sulla loro autostima. La maggior parte delle pazienti con mastectomia negli Stati Uniti si sente a disagio per le cicatrici dell’operazione, mentre le cicatrici sul viso e sul collo sono sempre visibili e certamente in grado di influenzare il funzionamento psicosociale, causando un aumento dell’ansia. La tecnica kintsugi ci suggerisce molte cose. Non dovremmo gettare gli oggetti rotti. Quando un oggetto si rompe, non significa che non sia più utile. Le sue rotture possono diventare preziose. Dovremmo cercare di riparare le cose perché a volte così facendo otteniamo oggetti ancora più preziosi. Questa è l’essenza della resilienza. Ognuno di noi dovrebbe cercare un modo per affrontare gli eventi traumatici della vita in modo positivo, imparare dalle esperienze negative senza negarle o rimuoverle, ma prendere il meglio da esse e convincersi che proprio queste esperienze rendono ogni persona davvero unica e più preziosa.

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PREHABILITATION

Il linguaggio medico si evolve man mano che parallelamente si sviluppano nuove tecniche farmacologiche e chirurgiche allo scopo di affrontare le sfide sempre più impegnative che ci si presentano. Prehabilitation  é uno dei nuovi termini con cui dovremmo familiarizzare: significa prepararsi in anticipo per un trattamento impegnativo come ad esempio la cura per un tumore. È un programma di supporto e consulenza che stanno già utilizzando molti ospedali del SSN. Riguarda soprattutto tre aspetti particolari della nostra salute: l’alimentazione, l’attività fisica giornaliera ed il benessere mentale. Di fatto tutto quello che influisce positivamente sul miglioramento della salute  in generale.

Al momento della diagnosi, e della programmazione di un percorso terapeutico pesante e a rischio di severi effetti collaterali, il team medico valuta il paziente e predispone un programma di preparazione: la “preabilitazione” appunto. La ricerca ha dimostrato ampiamente che chi riceve l’adeguato supporto prima di una chemioterapia o una chirurgia ed è “il più sano possibile”, è più probabile che lasci l’ospedale più precocemente dopo l’intervento chirurgico, affronti meglio gli effetti debilitanti del trattamento, subisca meno effetti collaterali, gli sia garantita una salute migliore a lungo termine.

Quindi il tempo di attesa per qualunque cura o per un intervento chirurgico dovrebbe essere considerato un tempo di preparazione per migliorare la salute fisica e mentale per affrontare al meglio trattamenti anche molto impegnativi.

 

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La fatica di ascoltare

Sarà capitato a molti di noi di essersi sentito esausto dopo aver ascoltato qualcuno parlare per molto tempo, soprattutto in una lingua straniera. Vorremmo incolpare l’oratore per essere noioso, in realtà stiamo sperimentando quella che è nota come stanchezza dell’ascolto.

Sentire, ascoltare, comprendere sono abilità innate, ma dobbiamo essere consapevoli della loro complessità. Normalmente ci riescono senza alcuno sforzo, ma in taluni casi possono risultare impossibili o quantomeno faticose. È ormai ben descritta la “listening fatigue”, l’ascolto faticoso.

Ad esempio, per le persone che soffrono di perdita dell’udito, il corpo e il cervello richiedono più energia per svolgere le attività uditive quotidiane. Questo sforzo porta all’affaticamento uditivo più rapidamente rispetto alle persone con capacità uditive migliori.

Alcuni individui si sentono affaticati dai suoni di una conversazione perché una maggiore energia e attenzione sono dirette verso la lettura delle labbra delle persone.  Ma non solo, una volta che hanno capito, il cervello richiede più energia per sviluppare una risposta a ciò che è stato detto.

L’affaticamento uditivo (noto anche come affaticamento dell’ascolto o affaticamento dell’orecchio) è, in sintesi un fenomeno che si verifica dopo un’esposizione prolungata a uno stimolo uditivo . I sintomi includono stanchezza, disagio, dolore e perdita di sensibilità. La fatica dell’ascoltatore non è uno stato clinicamente riconosciuto. Le persone a rischio di diventare vittime di questo fenomeno, oltre ai deboli di udito, sono gli accaniti ascoltatori di musica, ma anche coloro che si espongono o lavorano costantemente con rumori forti, come musicisti, operai edili e personale militare.

Uno studio recente1 ha scoperto che il 75 per cento delle insegnanti di scuola elementare soffre di affaticamento uditivo. I risultati dello studio sono stati sorprendenti.  Il tasso di “listener fatigue” da parte degli insegnanti di scuola primaria era “notevolmente più alto” (42%)  rispetto alla popolazione generale. Lo studio ha anche rilevato che coesistevano:

  • Difficoltà di comprensione del parlato: 46 per cento
  • Ipersensibilità al suono: 39 percento
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la presbiacusia

Un calo dell’udito dovuto all’invecchiamento è una condizione comune che colpisce molti anziani. Quasi un adulto su due di età superiore ai 65 anni ne soffre in un certo grado. La perdita dell’udito legata all’età è definita presbiacusia. Questa può avere un impatto significativo sulla qualità della vita se non trattata.  Si manifesta e si aggrava progressivamente nel tempo con velocità differente da individuo a individuo. Con il passare degli anni infatti si manifestano importanti cambiamenti nelle strutture dell’orecchio interno, ma anche nel flusso sanguigno a tutto il sistema nervoso. Si assiste quindi anche alla progressiva compromissione dei nervi responsabili dell’udito, cambia il modo in cui il cervello elabora la parola e il suono e si accumulano minimi danni ai minuscoli peli delle cellule ciliate che, nell’orecchio interno sono responsabili della trasmissione del suono al cervello. La perdita dell’udito legata all’età può anche essere aggravata poi da altri fattori, tra cui: diabete, cattiva circolazione, esposizione a rumori forti, uso di determinati farmaci, storia familiare di perdita dell’udito e fumo. I sintomi della presbiacusia in genere iniziano con l’incapacità di sentire i suoni acuti. Si perde per prima la possibilità di capire le voci di donne o bambini. Si manifesta con difficoltà a riconoscere i rumori di sottofondo e a comprendere gli altri. Può anche accadere che certi suoni sembrino troppo forti, tanto che risulta difficile la comprensione nelle zone rumorose. Spesso la presbiacusia si associa a acufeni, richiede di alzare il volume del televisore o della radio più del normale.

Non esiste ad oggi una cura per questo tipo di perdita dell’udito.  Il medico può consigliare apparecchi acustici per aiutare a sentire meglio, ma anche indicare dispositivi di assistenza, come amplificatori telefonici o altri sussidi.

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l’orecchio di Beethoven

Beethoven è stato uno dei più grandi musicisti della storia e la sua sordità è ben nota. Sono state proposte varie teorie sulla sua perdita dell’udito. Ludwig van Beethoven nacque nel 1770 a Bonn, in Germania, secondo di sette figli. È cresciuto con un padre severo e alcolizzato. Beethoven divenne assistente organista nella cattedrale di Bonn a soli 12 anni. Si trasferì a Vienna quattro anni dopo, per poi tornare a Bonn, dopo solo un anno, a causa della grave malattia della madre che in seguito morì di tubercolosi. Beethoven assunse il ruolo di capofamiglia e tornò a Vienna dove ebbe una lunga carriera di successo anche come musicista di corte. Dopo una lunga malattia di quattro mesi nel 1827, con insufficienza epatica, ascite e probabile setticemia, morì all’età di 56 anni. Per tutta la vita non godette di buona  salute: soffriva di un disturbo intestinale cronico che gli provocava diarrea, ma anche disturbi polmonari ricorrenti, sintomi catarrali, ascessi, febbri, reumatismi, problemi agli occhi e alla pelle. Si rese conto della progressiva perdita dell’udito e dell’acufene in età relativamente giovane, e questo divenne chiaramente evidente quando aveva 28 anni. La sordità era bilaterale e all’età di 44 anni era quasi completamente sordo. Egli stesso descrive dapprima la perdita dei suoni più acuti, inizialmente  con fluttuazioni, poi permanenti e il costante squillo del suo acufene. Una vasta gamma di condizioni è stata presa in considerazione alla ricerca della causa della perdita dell’udito. Sono state ipotizzate: sifilide, labirintite, otite media cronica e molte altre. Dopo la morte, come si usava all’epoca, gli fu asportato un ciuffo di capelli. Questo campione è sopravvissuto e l’analisi ha rilevato alti livelli di oppio, mercurio e piombo. Si ipotizza che questo livello tossico fosse stato causato dall’inquinamento da piombo del molto vino che beveva. Con il progredire della sua perdita dell’udito, Beethoven divenne più chiuso, profondamente ansioso, sempre più irascibile. Nel 1813 iniziò a usare il cornetto acustico e cinque anni dopo iniziò a comunicare con tavolette di carta e matite che divennero i famosi Konversationshefte. Nel 1817 usò una piastra di risonanza appositamente progettata per aumentare il volume del suo pianoforte e nel 1826 fece realizzare per lui un pianoforte a coda ad alto volume appositamente progettato. Ad oggi, la causa certa della sordità di Beethoven rimane però  ancora avvolta nel mistero.

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La “sindrome dell’Avana” ha raggiunto Vienna

Il governo degli Stati Uniti ha riconosciuto recentemente che sta indagando su una serie di incidenti sanitari nella capitale austriaca che coinvolgono i suoi diplomatici e altro personale amministrativo, simili a quelli a quelli accaduti tra il 2016 e il 2017 nella capitale di Cuba L’Avana. Secondo Washington, da quando il presidente Joe Biden è entrato in carica a gennaio, più di 20 funzionari statunitensi a Vienna hanno presentato sintomi simili a quelli originariamente verificatisi all’Avana, dove dozzine di diplomatici avevano contemporaneamente iniziato a soffrire di una misteriosa malattia cerebrale. Non c’è spiegazione esauriente per la sindrome, ma gli scienziati americani non escludono che possa essere causata da radiazioni a microonde mirate. Per più di due decenni durante la Guerra Fredda, l’allora Unione Sovietica pare abbia bersagliato l’ambasciata degli Stati Uniti ad Avana con un produttore di microonde. Infatti diplomatici americani e canadesi all’Avana si erano lamentati di sintomi che vanno da vertigini, perdita di equilibrio, perdita dell’udito e ansia a qualcosa che hanno descritto come “nebbia cognitiva”. Gli Stati Uniti hanno accusato Cuba di aver effettuato “attacchi sonori”, che L’Avana ha categoricamente negato, causando un aumento della tensione tra le due nazioni e la chiusura della sezione consolare degli Stati Uniti. Da allora, sono stati segnalati casi di condizioni analoghe in altre parti del mondo, come in Cina, ma i funzionari statunitensi affermano che le cifre di Vienna sono più alte che in qualsiasi città finora. La misteriosa malattia subita dal corpo diplomatico degli Stati Uniti potrebbe essere stata causata da radiazioni a microonde mirate. Il rapporto condotto dall’Accademia Nazionale delle Scienze non attribuisce peraltro alcuna responsabilità per l’emissione di onde energetiche. Tuttavia, sottolinea che l’ex Unione Sovietica ha condotto indagini sulle pulsazioni di energia a radiofrequenza già da più di 50 anni.

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Il cerume può accumularsi in grandi quantità nel condotto uditivo causando sintomi come prurito, ovattamento o perdita dell’udito. Per la maggior parte delle persone non costituisce un problema, è semplicemente un sistema di pulizia naturale delle orecchie. Di conseguenza, la maggior parte delle persone non ha bisogno di preoccuparsene. Detto questo, l’occlusione da cerume è uno dei problemi più comuni dell’orecchio, per i quali i pazienti vengono dallo specialista.  Il cerume è una sostanza oleosa prodotta dalle cellule della pelle nel condotto uditivo contenente cellule e detriti cutanei. La sua consistenza può variare notevolmente da umida e appiccicosa a secca e crostosa. Un meccanismo naturale lo spinge dalla profondità del condotto uditivo verso l’esterno dove può essere allontanato. Questo processo è facilitato dal movimento della mascella che si verifica durante la masticazione. Oltre allo scopo pulente del cerume, la sua acidità naturale fornisce una certa protezione contro batteri e funghi e aiuta a prevenire le infezioni. A causa di questi aspetti benefici del cerume, le linee guida per la pratica clinica raccomandano di non rimuovere il cerume se non ostruisce.  Diversi fattori possono però interferire con questo naturale processo. Questi includono canali uditivi insolitamente stretti, come si osserva nei bambini, l’uso dei tappi antirumore o degli apparecchi acustici, l’essiccazione del cerume che può verificarsi a causa dell’invecchiamento o, talvolta, a causa di una produzione eccessiva. Esistono tre metodi principali per la rimozione del cerume. Possono prevedere l’uso di gocce per ammorbidire il tappo, il lavaggio con acqua o la rimozione manuale utilizzando strumenti adeguati. La linea guida non definisce un metodo preferito. Le gocce per ammorbidire sono disponibili senza prescrizione medica e possono essere utilizzate in sicurezza a casa. L’uso di gocce e il lavaggio non è però consigliato in tutti i pazienti. La linea guida raccomanda che si faccia di volta in volta una valutazione per determinare il metodo migliore per la pulizia dell’orecchio.  Esistono alcuni metodi di pulizia che possono essere pericolosi e causare danni significativi. La linea guida ne richiama specificamente alcuni. Ad esempio “la candela” : numerosi studi hanno dimostrato che questo metodo è inefficace. Sono state osservate ustioni facciali significative dovute all’uso di candele per il cerume. I bastoncini di cotone vengono regolarmente utilizzati da molti pazienti. Anche questi sono stati causa di danni. Le punte possono causare graffi all’interno del condotto uditivo che favorire le infezioni, possono spingere il cerume più in profondità nel condotto uditivo e asciugarlo rendendolo più compatto. Le linee guida mettono in guardia dal loro uso. La maggior parte dei pazienti necessita solo di rassicurazione sui benefici del cerume per la salute. La pulizia dell’orecchio è giustificata quando porta a disturbi e deve essere eseguita con uno dei metodi sicuri descritti.

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la leggenda di Cadoc

Esistono, ce lo dice la Chiesa, santi protettori per per tutte le parti del corpo e per la maggior parte delle malattie. I santi patroni sono venerati soprattutto nelle Chiese cattolica romana e ortodossa.  Per i disturbi dell’orecchio si invocano i santi Mamas di Cappadocia, Luigi e Conone di Naso (in Sicilia) ma altri santi hanno legami specifici con la sordità: questi sono i santi Cadoc di Llancarfan, Francesco di Sales, Ovidio,  e Auduino.  C’è anche un patrono delle vertigini: Sant’Ulrico. San Policarpo e San Cornelio vanno invocati nei casi di otalgia. Interessante é la storia di Mamas  di Cappadocia. La leggenda narra che durante il dominio ottomano, credendo che ci fosse un tesoro nascosto nella bara di marmo dove riposavano le spoglie del santo, i turchi praticarono dei fori nel sarcofago, attraverso i quali trasudava una sorta di nettare. Si diceva che questo balsamo offrisse protezione contro il mal d’orecchi (oltre alla capacità di calmare i mari in tempesta). La leggenda di Cadoc merita una particolare attenzione.  Cadoc nacque come principe gallese intorno al 500 d.C. Era figlio del re Gwynllwg il Barbuto. Suo padre voleva che seguisse la carriera militare, ma Cadoc scelse la vita monastica e fondò un monastero a Llancarfan, che divenne uno dei monasteri più importanti del Galles. Ha viaggiato molto visitando non solo la Scozia e l’Irlanda, ma anche la Terra Santa e Roma. La sua principale associazione con la sordità, tuttavia, è con l’isola di St Cado in Bretagna. Qui, nell’oratorio si trova una grande costruzione in pietra, conosciuta come il letto di San Cadoc.  Una cavità nel fianco di questo letto consente al sofferente, non senza una certa  fatica, di stringere la testa e le spalle e appoggiare l’orecchio al “letto”. In seguito il supplicante si dirige alla vicina Fontaine de St Cado, dove beve dell’acqua e se ne mette un po’ nelle orecchie. È in questo modo, dice la leggenda che si assisterà a un rapido miglioramento della capacità uditiva (e l’udito sarà protetto da qualsiasi sordità futura). Un’altra associazione di Cadoc con la sordità è la storia della campana di San Gildas. Gildas e Cadoc erano amici e durante una visita a Cadoc sulla via di a Roma, questi gli diede una campana da portare in omaggio al papa. Ma, una volta a Roma, la campana rifiutò di suonare quando il Santo Padre la scosse. Il Papa che disse a Gildas di riportarla a Cadoc. Quando Cadoc la ricevette, la scosse e prontamente suonò forte. Questa vecchia campana è stata usata per molti anni per curare sordità e acufeni nella Cappella di St Mériadec a Stival in Bretagna. Veniva fatta suonare sopra il malato e poi posta sopra la sua testa per curare la sordità e gli acufeni. Questa pratica è andata avanti fino al 2009, quando la campana è stata rubata dalla cappella.

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Pandemia e burnout tra i sanitari… e non solo

Negli ultimi anni, il benessere, la salute mentale e il burnout dei sanitari sono saliti alla ribalta,  si tratta solo di un fenomeno che si è verificato a causa di questa pandemia? Non esattamente. Il termine ‘burnout’ è stato descritto per la prima volta da Herbert Freudenberger nel 1974. Sebbene non sia considerata una malattia mentale, può essere descritta come conseguenza di uno stress lavorativo caratterizzato da esaurimento, distanza mentale dal lavoro e ridotta efficacia. La pandemia di COVID-19 ha sicuramente esacerbato il burnout, anche se i segnali sono in realtá presenti da molti anni. I sanitari possono essere considerati ad alto rischio a causa dei lunghi orari di lavoro e dei profondi cambiamenti organizzativi.  Il burnout è qualcosa che deve essere riconosciuto e affrontato. I primi segni possono essere la sensazione di essere prosciugati o stanchi per la maggior parte del tempo, con disturbi del sonno e incapacità di staccare la spina. Questo può portare a esaurimento emotivo, mancanza di empatia e realizzazione sul lavoro, e poi, infine, disillusione, scarsa motivazione fino al disinteresse per il proprio lavoro. La maggior parte delle ricerche nel campo del burnout proviene dagli Stati Uniti. Uno studio recente su oltre 35.000 medici ha riportato almeno un sintomo di burnout nel 54% degli intervistati. Durante e dopo la pandemia l’esaurimento emotivo e fisico sono aumentati notevolmente, tanto é vero che molti medici lasciano la professione. Ma cosa provoca il burnout? La mancanza di considerazione da parte dei datori di lavoro e i troppi compiti burocratici sono alcune tra le maggiori cause. Il burnout può avere profonde conseguenze sugli individui, che manifestano di conseguenza una ridotta professionalità, abuso di droghe e alcol, rottura delle relazioni personali, depressione fino al suicidio. Ha anche un effetto negativo di conseguenza sul paziente, con un aumento del tasso di complicanze chirurgiche maggiori. Il disagio emotivo, lo stress e il burnout sono problemi comuni a molte categorie di lavoratori, che sono stati esacerbati da questa pandemia che ha messo in severa crisi l’assetto organizzativo della società.

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Il sangue dal naso

L’epistassi è una delle emergenze otorinolaringoiatriche più comuni. Già in un papiro dell’antico Egitto i geroglifici illustrano il trattamento del sangue dal naso: “pulirai il naso con due strisce di lino. Posizionerai altre due strisce di lino saturate di grasso animale all’interno delle narici…. “. Anche Ippocrte, maestro dell’arte medica ha dato le sue indicazioni di trattamento. Parallelamente si é manifestata una estrema varietà di convinzioni popolari spesso molto fantasiose come l’applicazione di cipolle sul naso o sotto il mento, (in Alto Adige, Trentino e Veneto), legatura di un filo al mignolo (in Calabria), applicazione di una chiave fredda sulla nuca o sulla schiena (in Sardegna e in Olanda), sfregamento di un limone sulla nuca (in Germania). L’uso di formule magiche o sortilegi in alcune aree rurali europee é un rituale ancora vivo dal medioevo ai giorni nostri.

La gestione specialistica dell’epistassi si è evoluta in modo significativo negli ultimi anni, compreso l’uso di cauterizzazione nasale e tamponamento. Il successo della cura richiede la conoscenza dell’anatomia nasale e dei potenziali rischi e complicazioni del trattamento. Diverse cause possono scatenare un sanguinamento dal naso. La più comune è l’aria secca, sia a causa del riscaldamento acceso in inverno che dal respirare aria a bassa umidità. Altre cause includono: traumi al naso; soffiarsi il naso troppo forte e spesso; effetti collaterali dei farmaci, soprattutto quelli che influiscono sulla coagulazione del sangue; allergie; altitudini elevate, dove l’aria è più rarefatta; ipertensione.

La maggior parte delle epistassi vengono percepite come molto più gravi di quanto non siano in realtà. Quasi tutte le epistassi possono essere  controllate anche a casa rispettando poche semplici accortezze: innanzitutto mantenere la calma. Innervosirsi può effettivamente fare sanguinare di più. Portarsi e mantenersi in posizione seduta o eretta. La testa va tenuta comunque più alta rispetto al cuore. Sporgersi un po’ in avanti per impedire al sangue di scendere in gola (il sangue deglutito provoca problemi di stomaco). Pinzare le narici schiacciandole con due dita. Pollice e indice devono comprimere le ali nasali per 5-10 minuti e ciò consente comunque di respirare attraverso la bocca. Questa manovra esercita una sufficiente pressione sulla parte del naso che sanguina e può far smettere il deflusso del sangue. Una volta che l’emorragia si è fermata, il naso non va toccato o soffiato, poiché potrebbe ricominciare a sanguinare. Ma se si ripresenta il sanguinamento, va soffiato delicatamente il naso per sbarazzarsi di eventuali coaguli di sangue, dopodiché si ripete la compressione.

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sonno o noia, perché sbadigliamo?

Sappiamo tutti che la stanchezza, la noia o la vista di qualcuno che sbadiglia possono causare l’impulso quasi irrefrenabile di aprire  la bocca e inspirare profondamente. Ma a quale scopo?  È di utilità  al nostro corpo? Quando ha iniziato a interessarsi al fenomeno alla fine degli anni ’80, Provine ha scritto che “lo sbadiglio è il comportamento umano meno compreso e più frequente”. Ippocrate 2.500 anni fa riteneva che lo sbadiglio aiutasse a eliminare dal corpo l’aria nociva, in particolare durante la febbre. “Come le grandi quantità di vapore che fuoriescono dai calderoni quando l’acqua bolle, l’aria accumulata nel corpo viene espulsa violentemente attraverso la bocca quando la temperatura corporea aumenta”.  Fino al XIX secolo gli scienziati hanno ipotizzato che lo sbadiglio aiutasse la respirazione, innescando una carica di ossigeno nell’afflusso di sangue, favorendo l’eliminazione dell’anidride carbonica. Se fosse vero, ci si aspetterebbe che le persone sbadigliassero più o meno frequentemente a seconda delle concentrazioni di ossigeno e anidride carbonica nell’aria. In realtà i molti esperimenti non sono riusciti a confermarlo. Comunque il fenomeno ad oggi non è completamente noto. Si verifica spesso prima e dopo il sonno, ma è anche associato a stress, noia e persino fame. Può essere accompagnato da un allungamento generale dei muscoli. L’attuale teoria fisiologica è che lo sbadiglio possa essere un meccanismo di termoregolazione. L’idea è che quando il cervello diventa troppo caldo, sbadigliare aiuta a raffreddarlo, aumentando la frequenza cardiaca e il flusso sanguigno mentre una grande boccata d’aria raffredda direttamente il sangue nella testa. Una delle ultime teorie è che sbadigliare in qualche modo reimposta il cervello, interrompendo l’attività corrente e consentendo al cervello “pulito” di concentrarsi sul compito successivo. Questo potrebbe spiegare perché, ad esempio, gli atleti frequentemente sbadigliano prima di una gara e così i musicisti prima di un concerto. “Circa il 50% delle persone che osservano uno sbadiglio sbadiglia in risposta”, dice  Provine.  Attenzione: potresti ritrovarti a sbadigliare mentre leggi questo articolo, perché uno dei tanti fattori scatenanti dello sbadiglio è anche semplicemente leggerlo o pensarci.

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Il padiglione auricolare

L’orecchio esterno presenta una forma affascinante, caratterizzata da variazioni illimitate, che lo rendono assolutamente unico. Il suo aspetto, la dimensione e la posizione  giocano un ruolo chiave nell’armonia del viso.  Gli antropologi lo studiano per differenziare le razze, gli psicologi lo usano come possibile indicatore di determinati tratti caratteriali e i criminologi lo usano come metodo di segnalazione e identificazione. In generale, tutte le caratteristiche dell’orecchio si modificano durante la nostra vita e le dimensioni aumentano fino all’età adulta. Il lobulo auricolare continua ad allungarsi, quindi il padiglione auricolare è considerato l’unica parte del nostro corpo che cresce per tutta la vita.  Da più di 10.000 anni gli artisti ritraggono il padiglione auricolare in sculture e dipinti. Nonostante la grande diversità individuale, molti artisti tendono inconsciamente a ritrarre persone diverse con padiglioni auricolari relativamente simili, come descritto dallo storico dell’arte italiano Giovanni Morelli nel XIX secolo.  Il padiglione auricolare rappresenta simbolicamente la “porta” attraverso la quale la saggezza divina accede alla dimensione umana.  L’esempio più noto è il mistero del concepimento di Gesù da parte di Maria nella fede cristiana; vari dipinti rappresentano questa concezione, in particolare da un angelo che sussurra all’orecchio di Maria. Nell’antico Egitto vengono riconosciute e raffigurate tre funzioni principali dell’orecchio: l’udito, la meditazione durante la preghiera e la decorazione come supporto per gli orecchini. La meditazione rituale era allora molto popolare, il che spiega le numerose stele rinvenute in vari musei. Sono stati scoperti anche orecchi votivi, amuleti auricolari e rilievi dipinti, in particolare in iscrizioni funerarie. Le orecchie votive divennero popolari durante il periodo greco-romano. Venivano presentati a Dio, nella speranza di una cura, per una richiesta di grazia, o come ringraziamento per un desiderio esaudito. Queste realizzazioni in bronzo con la forma della parte del corpo malata, in questo caso le orecchie di una persona, divennero noti anche come “ex voto”.  All’inizio del XVI secolo, e nel suo: “il giardino delle delizie”, Hieronymus Bosch ha creato una delle raffigurazioni dell’orecchio più famose della storia dell’arte: un paio di orecchie umane trafitte da una freccia e che brandiscono una lama. Un diavoletto spinge un ago in una delle orecchie. Secondo il simbolismo medievale sono queste le torture che ci si potrebbe aspettare all’Inferno. La freccia trafigge il punto Shen Men noto nella auricoloagopuntura, si tratterebbe del punto del nervo sciatico. La sciatica: un dolore ‘infernale’ (lo sa chi l’ha provata). E infatti questa rappresentazione si trova nel pannello dedicato all’Inferno.

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Tumori della faringe

Uno dei ricordi più vividi di quando ho iniziato la mia attività a Bolzano nel reparto diretto dal Prof. Lovino è l’enorme numero di tumori della gola, soprattutto della sua parte più bassa che prende il nome di ipofaringe. Negli anni di attività al Policlinico Sant’Orsola, benché affluissero i casi da tutte le regioni dell’Italia soprattutto centrale e meridionale, non ne avevo contati tanti. Il cancro ipofaringeo è un raro tipo di cancro del collo che colpisce la parte inferiore della gola. Sappiamo che questa malattia insorge comunemente nelle cellule che rivestono le prime vie digerenti, dette anche cellule squamose. Il fumo e il consumo di alcool, così come alcune carenze nutrizionali possono aumentare il rischio di ammalarsi.

Perché per nella nostra regione questo tipo di tumore maligno fosse tanto frequente, rispetto ad altre zone é stato naturalmente oggetto di attenta osservazione. Quali fattori lo provocano qui molto più che altrove? I sintomi del cancro alla gola sono all’inizio molto lievi e la diagnosi é spesso tardiva. Non é pensabile che nella nostra provincia la popolazione si faccia controllare con frequenza minore rispetto a chi vive altrove.  È accertato che il consumo di tabacco e alcol causa la maggior parte dei tumori della testa e del collo.   Sembra che la popolazione prealpina si distingua esattamente per questi aspetti.  Infatti nella nostra regione, come in ampie zone del Veneto e del Friuli, i fattori di rischio sono più diffusi. I fumatori negli anni ’80 erano particolarmente numerosi e frequentemente si incontravano pazienti che dichiaravano di bere anche 3/4 litri di vino, soprattutto di qualità scadente e con alto tenore di acidità. Va anche considerato il quasi quotidiano ricorso, soprattutto in quegli anni, a cibi spesso molto caldi (polenta) e carni conservate dopo affumicatura. Il meccanismo di insorgenza del tumore nelle prime vie digerenti si basa su una irritazione continua dovuta al transito di cibo molto caldo che provocando una infiammazione favorisce un più intenso assorbimento delle sostanze cancerogene contenute nel fumo e nelle carni affumicate, soprattutto se solubilizzate dall’alcol. Ciascuno di questi alimenti da solo é in grado di essere cancerogeno, ma la loro combinazione rende la miscela almeno 14 volte più pericolosa.    È indispensabile in ogni caso recarsi dal medico di famiglia quando siamo in presenza di un mal di gola persistente, difficoltà di deglutizione, cambiamento del tono di voce, dolore all’orecchio oppure se si nota la presenza di un gonfiore al collo.

 

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Eseritiamoci a non russare!

Russare può essere un notevole disturbo per il partner, i coinquilini e i familiari. Può disturbare il loro sonno, essere fonte di litigi e talvolta costringere i conviventi a dormire in camere separate.
Molti recenti studi hanno dimostrato che alcuni esercizi specifici della bocca e della gola sono un valido aiuto per rafforzare i muscoli delle prime vie aeree, in modo che il russare non sia più così frequente e rumoroso. Gli stessi esercizi, se ben eseguiti, migliorano anche l’apnea ostruttiva del sonno sia nelle forme lievi che moderate.
Questi esercizi orali sono chiamati “terapia miofunzionale”. Vengono insegnati da un logopedista qualificato.
Come qualsiasi tipo di programma di esercizi, ci vuole tempo e fatica per ottenere l’effetto, ma un numero significativo di russatori e di persone con OSA ha riferito che questi esercizi hanno ridotto il russamento e favorito un sonno sensibilmente migliore.
Mentre dormiamo, lo spazio dietro la nostra lingua si restringe e i tessuti muscolari intorno ad essa si rilassano. Quando l’aria viene forzata durante l’inspirazione e l’espirazione, questi muscoli vibrano e producono rumori come una bandiera al vento. Il russare si verifica pertanto quando il flusso d’aria fa vibrare il tessuto flaccido, ipotonico.
L’apnea ostruttiva del sonno é una situazione più grave e avviene quando i muscoli flaccidi si rilassano talmente da bloccare completamente le vie aeree. Questo interrompe il respiro e può portare a una diminuzione di ossigeno in tutto il nostro corpo. La terapia Miofunzionale può rafforzare i muscoli delle vie aeree e della lingua, favorendo anche la respirazione attraverso il naso.
Proprio come una regolare attività in palestra aiuta a rafforzare le braccia, gli esercizi regolari per la bocca e la gola rafforzano anche i muscoli delle vie respiratorie. I muscoli che diventano così più sodi e tonici hanno minore probabilità di sbandierare e afflosciarsi.
I benefici di questi esercizi per la bocca e la gola che la terapia miofunzionale ci insegna, sono stati attentamente valutati sia in persone che russano, sia in coloro che soffrono di apnea ostruttiva del sonno da lieve a moderata.
Gli esercizi orofaringei vanno sempre associati a cambiamento radicali di abitudini sociali dannose, infatti possono essere meno efficaci se il russare è correlato all’uso di alcol o di sedativi, che causano anch’essi il rilassamento dei muscoli nella parte posteriore della gola.

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Il pollo allo zinco

Molte persone fanno largo uso di prodotti da banco a base di zinco, in particolare  per prevenire o curare il raffreddore. La domanda é: questo minerale può davvero aiutare a curare il comune raffreddore? Una recente analisi pubblicata nel novembre 2021 su BMJ Open ha rilevato che le prove sono contrastanti. I ricercatori hanno riunito i dati di 28 studi randomizzati controllati che si sono posti il quesito se pastiglie, gel, capsule o spray di zinco potessero alleviare i sintomi del raffreddore o accelerarne il decorso. Uno studio ha dimostrato che lo zinco ha ridotto la durata dei sintomi in media di due giorni rispetto al normale decorso, mentre questo non era influenzato dall’uso di un placebo. Dalle conclusioni di un secondo lavoro, risulta che, lo zinco ha ridotto la gravità dei sintomi soprattutto nel terzo giorno di raffreddore, quindi intorno al picco della malattia. Tuttavia, la maggior parte degli studi ha purtroppo rilevato che lo zinco ha avuto solo un effetto modesto se non  del tutto assente, specialmente riguardo l’attenuazione dell’intensità dei sintomi. Sebbene alcune persone possano trarre beneficio dall’assunzione di zinco, non è chiaro chi siano queste persone. Un aspetto positivo: non sembra esserci alcun danno significativo dall’assunzione di zinco in quantità sicure all’inizio dei sintomi del raffreddore. Fino a quando non si saprà di più, è meglio adottare un approccio con il classico brodo di pollo. Infatti alcune ricerche scientifiche hanno confermato che in casi di raffreddore e influenza, il brodo di pollo contribuisce sensibilmente ad alleviare i sintomi. Ciò è dovuto alle numerose sostanze nutritive presenti che aumentano le difese immunitarie, tra cui anche lo zinco. Inoltre il pollo è ricco di triptofano che aiuta l’organismo a produrre serotonina, migliorando l’umore e donando una gradevole sensazione di sollievo.

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Il Naso di GOGOL

Che idea strana scrivere una storia su un uomo che perde il naso! “Il naso” è stato originariamente scritto in russo dall’autore Nikolai Gogol. Fu pubblicato nel diario letterario di Aleksandr Pushkin The Contemporary nel settembre 1836. Gogol era molto sensibile al suo naso lungo e appuntito e spesso faceva battute autoironiche su di esso quando scriveva lettere ai suoi amici. Infatti, Gogol (il cui vero nome era Nikolai Ianovskii) scelse addirittura lo pseudonimo di ‘Gogol’ per via del suo naso! (In russo, gogol è un’anatra dagli occhi dorati.) Gogol ha fatto riferimento ai nasi anche in molte altre sue storie. Il racconto ci porta in Russia.  Una mattina il barbiere Ivan Yakovlevich si sveglia e fa colazione come al solito. Tuttavia, con sua grande sorpresa, scopre che in mezzo alla pagnotta che ha appena tagliato c’è un naso. “Un naso, era esattamente quello che era! E per di più sembrava appartenere a qualcuno che conosceva…”. Il naso appartiene infatti a un suo cliente, un funzionario pubblico, l’assessore collegiale Kovalev, a cui Ivan Yakovlevich taglia i baffi regolarmente durante la settimana. Spaventato, Ivan corre fuori e getta il naso nel fiume,  per poi però essere catturato da un poliziotto di passaggio. Kovalev  cerca di trovare  un modo per ritornare in possesso del suo naso. Prova dalla polizia senza risultato, prova poi a mettere un annuncio su un giornale. Quando ogni speranza sembra perduta, arriva un poliziotto per annunciargli che il naso è stato arrestato. Il naso aveva cercato di fuggire dalla città. Kovalev cerca di riattaccarsi il naso, e ci riesce magicamente come lo aveva perso. La storia si conclude con il narratore che fa un breve commento sul tema: “Qualunque cosa tu possa dire, queste cose accadono – non troppo spesso, ma succede”. Gogol sta deridendo il lettore? La magia e il mistero di “The Nose” sta nel fatto che la storia è così strana che, come per i racconti di Kafka, è molto difficile trovare un’interpretazione che ne escluda tutte le altre. Più tempo passiamo a pensarci, più idee ci vengono in mente su cosa significhi esattamente questo racconto. In definitiva, il motivo per leggere la storia è che in realtà è semplicemente divertente. Molti scrittori hanno notato che il “naso” è un magnifico esempio di fantasia, la parodia di Gogol di vari pregiudizi e la fede ingenua delle persone nel potere delle forze soprannaturali. Gli elementi fantastici nelle opere di Gogol sono modi di esibizione satirica dei vizi della società. Andrea Camilleri ha scritto:” Il modo con cui Gogol affronta questa storia non è mai ottusamente realistico, anzi talvolta la sua ribollente fantasia fa sì che la realtà diventi un trampolino di lancio verso un’altra realtà, quella fantastica.”

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Vedere valanghe dove non ce ne sono.

La scarsa visibilità sui pendii può causare vertigini, nausea e allucinazioni.
“Noi lo chiamiamo malattia dello  sci, un fenomeno comune”, afferma Martin Burtscher, ex presidente della Società austriaca di medicina alpina e d’alta quota. “È fastidioso, ma si tratta di una malattia innocua.”
Il fenomeno della malattia dello sci è stato descritto per la prima volta nel 1995 dal medico svizzero Rudolf Häusler. Egli stesso aveva provato la sensazione della neve che gli scivolava addosso associata a un fastidioso senso di nausea. Gli ricordava il mal di mare. Poi ha iniziato a interrogare i suoi pazienti:”Sono rimasto stupito di quante persone hanno avvertito sintomi simili, ma l’ho sempre attribuito a troppo alcool o al cibo avariato nelle baite”, afferma l’ex primario della clinica otorinolaringoiatrica dell’Inselspital a Berna.
I sintomi sono piuttosto costanti: la montagna sembra ondeggiare, masse di neve scivolano davanti o sotto lo sciatore e in alcuni casi si verificano vertigini, nausea e vomito. La malattia dello sci di solito si verifica quando la visibilità è scarsa, quando le piste sono difficilmente distinguibili dal cielo bianco. “La malattia dello sci è come il mal d’auto in montagna”, afferma Roland Laszig, primario della clinica otorinolaringoiatrica dell’Università di Friburgo.
L’organo dell’equilibrio nell’orecchio interno percepisce i cambi di direzione dello sciatore, ma gli occhi segnalano che è fermo a causa della scarsa visibilità. Quindi al nostro centro dell’equilibrio nel cervello arrivano informazioni contrastanti”.
La malattia dello sci non ha nulla a che fare con il mal di montagna, patologia decisamente più grave, che può anch’essa iniziare con nausea e vomito. “Il mal di montagna si verifica solo ad altitudini superiori ai 3.000 metri”, dice, “al contrario questo disturbo dello sciatore costituisce un fenomeno del tutto nuovo per cui non ci sono statistiche”. “Molti sperimentano sintomi lievi con incertezza e leggero disorientamento quando la visibilità è scarsa”, afferma Burtscher, “ma la maggior parte di loro può adattarsi rapidamente”.
I ricercatori hanno scoperto che i giovani sciatori con miopia, ipermetropia o astigmatismo hanno quattro volte più probabilità di soffrire di questi disturbi.
Burtscher ha validi consigli per chiunque ne venga colpito. “È meglio individuare un punto fermo e fissarlo con gli occhi, può essere un albero o una roccia”, dice, e se ciò non aiuta, meglio scendere dagli sci.
Coloro che non vogliono rinunciare allo sci possono usare farmaci per la cura del mal d’auto. Si tratta però di farmaci con vari effetti collaterali. La visibilità può essere ridotta con la scopolamina, altri possono causare sonnolenza, mal di testa, dolori addominali, a volte anche allucinazioni e disturbi del movimento. Il rischio di effetti collaterali va corso solo nei casi in cui sia indispensabile muoversi in auto, aereo o nave, per cui ilProf Laszig consiglia di non andare a sciare e rimanere a casa nei giorni di scarsa visibilità. Spesso ne vale la pena.

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il linguaggio dei segni

Non si sa quando sono nate le lingue dei segni, certamente erano presenti già nelle civiltà antiche di Cina, India, Mesopotamia, Egitto, Maya. Più recentemente, ce ne hanno dato un chiaro esempio i pellerossa americani. Nonostante i frequenti contatti tra le tribù delle grandi pianure, come quelli tra Sioux, Cheyenne ed Arapaho, ogni gruppo era geloso della propria lingua e raramente imparava il linguaggio degli altri. Però come mezzo di comunicazione universale si intendevano per mezzo di un linguaggio condiviso fatto di segni.
Oggi il linguaggio dei segni é la principale forma di comunicazione nella comunità dei nonudenti e degli ipoudenti, ma il linguaggio dei segni può essere utile anche per altri gruppi di persone. Anche persone con disabilità tra cui autismo, aprassia del linguaggio, paralisi cerebrale e sindrome di Down possono trovarlo utile per comunicare. La lingua dei segni è un mezzo visivo di comunicazione attraverso segnali manuali, gesti, espressioni facciali e linguaggio del corpo.
Come la lingua parlata, le lingue dei segni si sono sviluppate naturalmente attraverso diversi gruppi di persone che interagiscono tra loro, e ce ne sono molte varietà, se ne conoscono circa 300 diversi tipi nel mondo. È interessante notare che nei paesi che condividono la stessa lingua parlata non vi é necessariamente la stessa lingua dei segni. L’inglese, ad esempio ne ha tre varietà differenti: lingua dei segni americana (ASL), lingua dei segni britannica (BSL) e lingua dei segni australiana (Auslan).
L’uso delle mani per rappresentare le singole lettere di un alfabeto scritto è chiamato “fingerspelling”. È uno strumento importante che aiuta a comunicare nomi di persone, luoghi e cose che non hanno un segno stabilito. Naturalmente, come per le lingue parlate, anche l’alfabeto della lingua dei segni è diverso. Alcuni alfabeti manuali sono a una mano, altri richiedono due mani. Tutte le lingue dei segni hanno una propria struttura linguistica, diversa da quella della lingua del paese dove vengono usate.
Ma la comunicazione non avviene unicamente attraverso i gesti delle mani, la lingua dei segni, in realtà, è costituita da diversi parametri fondamentali: componenti manuali, tra cui il movimento, l’orientamento, la configurazione e la posizione delle mani, e altre componenti non-manuali, ossia le espressioni facciali, la postura e i movimenti della bocca. La comunicazione non coinvolge quindi soltanto l’uso delle mani, ma anche le braccia, il busto e la testa. Anche le espressioni facciali sono molto importanti: dall’uso che si fa del movimento delle sopracciglia, la chiusura delle palpebre, la direzione dello sguardo e i movimenti della bocca dipendono diverse sfumature di significato.
Un bambino nato da genitori sordi che già usano la lingua dei segni comincerà ad acquisirla con la stessa naturalezza con cui un bambino udente impara la lingua parlata dai genitori udenti. Tuttavia, per un bambino sordo con genitori udenti che non hanno precedenti esperienze, la lingua dovrà essere acquisita in modo diverso. Infatti, 9 bambini sordi su 10 nascono da genitori che sentono. Alcuni genitori udenti scelgono di fare apprendere la lingua dei segni ai loro figli sordi, e spesso la imparano insieme a loro. I bambini sordi e con genitori udenti talvolta apprendono la lingua dei segni attraverso coetanei sordi e diventano fluenti e bilingui. Come per le altre lingue, quanto prima un bambino viene esposto e inizia ad acquisire il linguaggio, tanto migliore sarà il suo sviluppo linguistico, cognitivo e sociale. La ricerca suggerisce che i primi anni di vita sono i più cruciali per lo sviluppo delle abilità linguistiche di un bambino e per stabilire una comunicazione di successo. Si può concordare con Bencie Woll, che afferma su New Scientist, che: “chi conosce la lingua dei segni ha una marcia in più, poiché oltre a comunicare meglio, apprende una serie di strategie per leggere e interpretare le espressioni facciali che sono essenziali per capire le emozioni di nostri interlocutori.”

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I segreti delle allergie

Circa un terzo della popolazione soffre di allergia. Si tratta di una reazione esagerata del sistema immunitario a determinate sostanze che normalmente sono innocue e ben tollerate dal nostro organismo. Questa reazione causa infiammazioni o irritazioni che provocano i sintomi tipici dell’allergia. I sintomi tipici dell’allergia possono colpire diversi organi:
Occhi: prurito, lacrimazione, arrossamenti, gonfiore
Naso: prurito, starnuti, raffreddore, mucosa nasale infiammata
Bronchi: tosse, respiro affannoso
Pelle: prurito, rossore, eruzione cutanea, pomfo
Tra le allergie, particolarmente frequente é quella al polline.
I granuli pollinici derivano dalle piante. L’intensità del volo dei pollini è diversa a secondo delle condizioni atmosferiche. Per questo motivo i sintomi si manifestano soprattutto nella stagione primaverile.
 Quando la mucosa nasale, degli occhi o dei bronchi entra a contatto con i granuli pollinici, possono manifestarsi diversi disturbi.
Molto frequenti sono anche le reazioni agli acari.
È praticamente impossibile riconoscere l’acaro della polvere ad occhio nudo. Uno dei suoi habitat preferiti è casa nostra, si alimenta di forfora, preferisce l’ambiente caldo e umido, per questo motivo solitamente crea il suo habitat nei materassi ma anche tra la polvere domestica. 
Le sostanze che provocano la reazione allergica si trovano negli escrementi dell’acaro. I sintomi di questa allergia si manifestano durante tutto l’anno, ma si accentuano durante i mesi autunnali e invernali. L’acaro della polvere ama riprodursi nel letto per via delle condizioni ottimali che gli vengono offerte. Per questo motivo i sintomi dell’allegria sono più evidenti di notte e al risveglio al mattino.
Frequente é anche l’allergia a spore di funghi. Per esempio l’alternaria é un micete che si riproduce grazie a spore microscopiche, che si accumulano in massa e vengono diffuse dall’aria. Le spore possono aderire a superfici o materiali, come per esempio alimenti, tappezzeria o legno, dove possono dare vita a nuove spore, che si presentano sotto forma di un reticolato che a volte potrebbe sembrare cotone o farina. La muffa si può formare anche su pareti umide come per esempio in bagno. 
Il contatto con le spore avviene attraverso i cibi o direttamente attraverso l’aria che respiriamo.
Molti sono allergici agli animali. Le cause scatenanti dell’allergia agli epiteli animali sono da ricercarsi nel contatto con la loro saliva, le particelle cutanee, l’urina o le feci. I loro allergeni aderiscono al pelo o alle piume dell’animale e vengono diffusi negli ambienti soprattutto se l’animale si gratta o si struscia contro un oggetto. Una volta asciutti, gli allergeni vengono distribuiti nell’aria e possono essere facilmente inalati ed entrare a contatto con la nostra mucosa.
L’allergia alimentare (es. arachidi, latte, uova) si manifesta nel momento in cui questi cibi vengono ingeriti. Spesso nei pazienti con allergia al polline si presenta una reazione crociata dovuta al consumo di alcuni tipi di frutta o verdura. 
Sopratutto nei bambini possono insorgere allergie alimentari come alla carne di pollo, al latte vaccino o al frumento.
L’allergia crociata è un’allegria a proteine simili o imparentate tra loro. Per questo motivo, la persona colpita manifesterà una reazione a più allergeni. È quindi possibile che un’allergia alimentare possa molto spesso essere ricondotta ad un’allegria al polline o al lattice. Gli allergeni alimentari in questione, hanno una struttura chimica simile a quella degli allergeni del polline, cosicché il sistema immunitario di una persona allergica al polline reagisce anche a questi allergeni.
Per poter riconoscere le vere cause dell’allergia è consigliata la visita da uno specialista, il quale farà una corretta anamnesi. Il paziente dovrà descrivere i sintomi, in modo da poter comprendere le cause scatenanti.
Con l’aiuto di un test allergico nella maggior parte dei casi, è possibile confermare il sospetto a quella determinata allergia.

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orecchio “pieno”?

Un po’ di cerume fa bene alle orecchie, quindi spesso la miglior politica è di lasciarlo stare. Poche gocce d’acqua potrebbero essere tutto ciò di cui c’è bisogno per liberarsi da un blocco dell’orecchio.
Il cerume, una produzione del nostro corpo e di cui molti di noi preferirebbero fare a meno, è in realtà una sostanza piuttosto utile. È un detergente naturale poiché si sposta dall’interno del condotto uditivo verso l’esterno, raccogliendo cellule morte della pelle, capelli e polvere lungo il percorso. I test hanno dimostrato che ha proprietà antibatteriche e antimicotiche.
Ma alle volte si accumula fino a ostruire il canale. Un condotto uditivo otturato con cerume può causare sordità, infezioni e altri problemi. Il cerume può addirittura causare la tosse stimolando il ramo del nervo vago che innerva l’orecchio esterno e i bronchi.
Le linee guida americane mettono in guardia contro la rimozione a meno che il cerume non stia causando un problema. Il termine medico deriva da cera, alla quale può assomigliare per consistenza. Inizia come una miscela di secrezioni grasse dalle ghiandole sebacee e dalle ghiandole sudoripare nelle pareti del condotto uditivo esterno. Il movimento della mascella durante la masticazione o il parlare aiuta a spingerlo attraverso il canale verso l’apertura dell’orecchio, dove si seccano e si sfaldano.
La pelle morta e altri detriti si combinano con le secrezioni delle ghiandole sebacee e sudoripare modificate per creare il cerume.
Il cerume che raccoglie molti detriti o rimane a lungo nel condotto uditivo può indurirsi e seccarsi, quindi è più probabile che causi un blocco. Le condizioni che producono molta pelle secca e desquamata, come l’eczema, possono anche provocare cerume duro. E con l’età, le secrezioni ghiandolari cambiano consistenza, quindi non viaggiano facilmente attraverso il condotto uditivo.
Alcune persone nascono semplicemente producendo cerume secco che potrebbe avere maggiori probabilità di agglomerarsi.
La cosa che molte persone fanno erroneamente è provare a rimuovere il cerume con un batuffolo di cotone, che tende a spingerlo di nuovo in profondità.
Il cerume si forma nel terzo esterno del condotto uditivo, non vicino al timpano. Quindi, quando c’è un accumulo proprio contro il timpano, è spesso il risultato di tentativi di rimozione falliti.
Si possono utilizzare prodotti che sciolgono il cerume. Quelli a base d’acqua contengono ingredienti come acido acetico, perossido di idrogeno o bicarbonato di sodio. I prodotti a base di olio lubrificano e ammorbidiscono il cerume. Gli studi non hanno dimostrato che un tipo sia migliore dell’altro. A volte l’uso di queste sostanze é sufficiente. Lo specialista affronta un tappo di cerume più o meno allo stesso modo di un fai-da-te, ma con più esperienza e con una visione migliore. I medici hanno anche strumenti di gran lunga migliori per rimuovere meccanicamente il cerume: curette sottili a forma di cucchiaio che possono adattarsi allo spazio ristretto del condotto uditivo.
Gli apparecchi acustici che bloccano la normale migrazione del cerume dall’orecchio, possono anche stimolare le ghiandole nel condotto uditivo a produrre più secrezioni. Secondo alcuni, tra il 60% e il 70% degli apparecchi acustici inviati per la riparazione sono danneggiati dal cerume. Entra in prese d’aria e ricevitori e l’acidità degrada i componenti.

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sonno e invecchiamento

Quasi la metà degli uomini e delle donne dopo i 65 anni afferma di avere almeno un problema di sonno. Con l’età, molte persone soffrono di insonnia o hanno altri disturbi del sonno .
Invecchiando le nostre esigenze di sonno cambiano. In generale, le persone anziane dormono meno, si svegliano e tornano a dormire più spesso e trascorrono meno tempo nel sonno profondo o sognando rispetto a quando erano più giovani.
Ma a qualsiasi età, è indispensabile un riposo di qualità per essere in salute.
Come si modifica il nostro modo di trascorrere la notte con il passare dell’età?
Il primo elemento deve considerare le cattive abitudini durante sonno: se non seguiamo un ritmo rigoroso e fisso per andare a letto e svegliarci, influiremo negativamente sull’orologio interno del nostro corpo e sarà sempre più difficile dormire bene. A qualsiasi età, ma soprattutto nell’anziano, tre sono i principali errori da evitare perché estremamente dannosi: bere alcolici prima di andare a dormire, fare un pisolino di troppo e restare a letto quando non si dorme.
Alcuni farmaci poi, rendono più difficile addormentarsi o rimanere addormentati, o addirittura stimolano a rimanere svegli. Nella sorveglianza dei disturbi del sonno é sempre bene verificare se sono iniziati in coincidenza con l’inizio di qualche cura.
L’invecchiamento comporta molti cambiamenti nella vita di tutti. Alcuni sono positivi. Altri sono davvero difficili da affrontare e sono all’origine di preoccupazioni, stress o dolore. La perdita di una persona amata, il trasferimento in una abitazione diversa per necessità di assistenza, o qualunque condizione che ci cambia la vita, sono causa di stress, e il primo a risentirne é il sonno.
I principali disturbi del sonno oltre all’insonnia, sono il russamento, le apnee, la “sindrome delle gambe senza riposo” ed altri.
Ad esempio l’apnea notturna fa sì che la respirazione si fermi per alcuni secondi mentre si dorme. Le persone che soffrono di apnea notturna spesso sono anche forti russatori. Si tratta di un fenomeno inconsapevole e può verificarsi centinaia di volte in una sola notte. L’apnea notturna rende difficile ottenere un adeguato riposo notturno. Può essere dannosa se si smette di respirare troppo a lungo. Può anche causare ipertensione e aumentare il rischio di infarto.
La sindrome delle “gambe senza riposo” è una condizione in cui si hanno dolore o fastidio alle gambe si verifica prevalentemente da seduto o sdraiato. Chi ne soffre ha la sensazione che le gambe non possano stare ferme e può rendere molto difficile dormire.

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CHI HA PAURA DEL COVID?

Siamo giornalmente tempestati di nuovi numeri e dati sul Covid 19, il mostro che tanto impatta sulle nostre vite da ormai troppo tempo. Tra questi dati, ci conforta il confronto tra il numero dei ricoverati questo mese rispetto allo stesso un anno fa. È sceso infatti significativamente il numero dei ricoveri, anche a fronte di un numero di infettati pressoché costante e ancor più é inferiore quello dei ricoveri nei reparti di rianimazione e dei deceduti. Ma chi sono questi pazienti Covid? Chi, tra coloro che contraggono il virus é più probabile che manifesti sintomi importanti, tanto da dover essere ricoverato? E che tipo di pazienti peggiorerà nonostante tutto e dovrà essere ventilato meccanicamente e finire in rianimazione? E ancora: quali sono i pazienti che hanno un’evoluzione tumultuosa, non reagiscono ai trattamenti e muoiono?
Di recente é uscita una accuratissima analisi di quali tipologie di persone (o cormobilitá) é a maggior rischio di avere un decorso complicato o di morire. Lo studio é stato svolto nel centro per la prevenzione e il controllo delle malattie statunitense.
Sono stati analizzati i dati di oltre 800 ospedali statunitensi per descrivere i pazienti adulti ricoverati con COVID-19 da marzo 2020 a marzo 2021 (quasi 5 milioni). Sono stati utilizzati modelli matematici allo scopo di stimare il rischio di dover ricorrere ad un ricovero in unità di terapia intensiva, ventilazione meccanica o morte.
Su 4.899.447 cartelle cliniche, i pazienti con COVID-19 nel 94,9% aveva almeno una patologia associata. In ordine di frequenza tali patologie erano: l’ipertensione essenziale (50,4%), i disturbi del metabolismo lipidico (49,4%) e l’obesità (33,0%). I fattori di rischio più forti per la morte si sono dimostrati: l’obesità, il diabete complicato, ma anche, e questo é risultato sorprendente: i disturbi legati all’ansia e alla paura.
L’ipertensione e l’ipercolesterolemia erano i più frequenti, mentre l’obesità, il diabete con complicanze e i disturbi d’ansia erano i fattori di rischio più forti anche per la malattia da COVID-19 grave.
Che i disturbi legati ad ansia e paura costituiscano una tra le prime comorbilitá che espone ad un covid più complicato e grave, aggiunge ansia all’ansia che già molti di noi percepiscono. Se consideriamo il sensibile aumento di ricorso a farmaci ansiolitici e calmanti possiamo immaginare quanto grande sia il numero di pazienti a rischio di sviluppare un Covid grave.

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vertigini e instabilità dell’anziano

Molto spesso le vertigini vengono confuse con un fastidiosissimo senso di instabilità e di insicurezza. Parliamo di vere e proprie vertigini esclusivamente quando siamo in presenza di una sensazione di movimento. Tipiche dell’anziano sono invece l’incertezza, l’impaccio nel camminare e altre spiacevoli sensazioni di perdita del controllo muscolare. Con il normale invecchiamento tante capacità fisiche diminuiscono, soprattutto la forza, la rapidità e la resistenza. Oltre a questi deficit legati ai muscoli, ci sono anche cambiamenti che si verificano nel coordinamento dei movimenti del corpo. Insieme, questi cambiamenti significano che con l’avanzare dell’età, può capitare di non essere in grado di svolgere semplici attività come correre per prendere un autobus, passeggiare in giardino, portare la spesa in casa, mantenere l’equilibrio su una superficie scivolosa o giocare a palla con i nipoti come prima. Ma per quale motivo si verificano questi cali e cosa è possibile fare per conservare forza e coordinazione?
Il calo di forza, rapidità e resistenza che si manifesta con l’età è associato alla diminuzione della massa muscolare. Anche se non c’è molto declino nei muscoli tra i 20 ei 40 anni, dopo i 40 anni ci può essere un calo dall’1% al 2% all’anno della massa magra e dall’1,5% al 5% all’anno della forza .
La perdita di massa muscolare è conseguenza sia di un numero ridotto di fibre muscolari sia della riduzione delle dimensioni delle fibre stesse. Se queste diventano troppo piccole, si atrofizzano e muoiono. Le fibre muscolari a contrazione rapida si perdono per prime, portando a una riduzione della velocità muscolare, e viene penalizzata soprattutto l’agilitá. Inoltre, con l’età diminuisce anche la capacità di riparazione dei muscoli a causa del declino degli ormoni per la costruzione muscolare tra cui testosterone, estrogeni e ormone della crescita.
I cambiamenti nella coordinazione sono meno legati ai muscoli e più al cervello e al sistema nervoso. Diversi centri cerebrali devono essere molto ben coordinati anche per esempio per tenere ferma una tazza di caffè mentre camminiamo. Ciò significa che il cablaggio del cervello, la cosiddetta “sostanza bianca” che collega le diverse regioni del cervello, è cruciale.
Sfortunatamente, la maggior parte delle persone dopo i 60 anni, particolarmente se seguono una dieta occidentale e non fanno abbastanza esercizio fisico, hanno segni di malattie microvascolari nella loro sostanza bianca chiamati “ministroke”. Sebbene questi piccolissimi infarti siano così piccoli da non essere evidenti quando si verificano, possono interrompere le connessioni tra importanti centri di coordinazione cerebrale come il lobo frontale (che dirige i movimenti) e il cervelletto (che fornisce correzioni al volo a piccole irregolarità nei movimenti).
Inoltre, con l’avanzare dell’età è comune la perdita delle cellule produttrici di dopamina, e anche questo può rallentare i movimenti e ridurne la coordinazione, quindi, anche se non si manifesta un morbo di Parkinson, molte persone sviluppano alcune anomalie molto simili nei loro movimenti .
Infine, non sono da sottovalutare anche i cambiamenti nella vista. Le malattie degli occhi sono molto più comuni negli anziani, tra cui cataratta, glaucoma e degenerazione maculare. Una lieve difficoltà alla vista può anche essere il primo segno di disturbi cognitivi nell’invecchiamento.
Una delle cause più importanti della riduzione della forza e della coordinazione con l’invecchiamento è semplicemente la riduzione dei livelli di attività fisica. Con l’avanzare dell’età, diventa sempre più importante fare esercizio regolarmente. Non é mai troppo tardi per iniziare una regolare attività di esercizio fisico eseguendo esercizi aerobici come camminata veloce, jogging, bicicletta, nuoto o lezioni di aerobica per almeno 30 minuti al giorno, cinque giorni alla settimana.
Vanno eseguiti soprattutto esercizi che mantengono e aumentano forza, equilibrio e flessibilità come minimo due ore a settimana (yoga, tai-chi, pilates, sollevamento pesi isometrico).
Non dimentichiamo poi di alimentare cervello e muscoli con la sana dieta mediterranea.

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Quando il bambino non parla

Il disturbo specifico del linguaggio (DSL) è un disturbo della comunicazione che rallenta e ritarda la capacità di parlare nei bambini. Naturalmente si parla di bambini che apparentemente non hanno alcun motivo per non parlare come gli altri, per esempio non hanno una perdita dell’udito e nessun problema di intelligenza. Un DSL influenza il modo di parlare, ascoltare, leggere e scrivere di un bambino, cioé tutte le varie espressioni che si usano abitualmente per comunicare. Può anche essere definito disturbo dello sviluppo del linguaggio, ritardo del linguaggio o disfasia dello sviluppo. È uno dei più comuni disturbi che possono influenzare lo sviluppo della crescita, e si manifesta circa nel 7-8 percento dei bambini all’asilo. L’impatto di questo disturbo talvolta persiste fino all’età adulta.
La causa è sconosciuta, ma recenti studi suggeriscono che ha un forte legame genetico. I bambini con DSL hanno maggiori probabilità di avere genitori e fratelli che hanno anche avuto difficoltà e ritardi nel parlare. In effetti, dal 50 al 70 percento dei bambini con ritardo del linguaggio ha almeno un membro della famiglia con lo stesso disturbo.
L’apprendimento di più di una lingua alla volta non sembra avere un ruolo in questo tipo di ritardo. Il disturbo può, infatti, colpire sia i bambini multilingui che quelli che parlano una sola lingua.
Indagando nella storia di un bambino con DSL vediamo quasi sempre che ha iniziato a parlare con ritardo.
Uno sviluppo regolare della comunicazione nel bambino, infatti prevede alcune tappe molto precise:
La prima è la cosiddetta lallazione. Il bambino a 6 mesi circa comincia a produrre brevi suoni ripetuti, che lo divertono e lo stimolano a continuare nella vocalizzazione.
Verso i 9-13 mesi cresce la capacità di interagire con l’ambiente e le altre persone. Il piccolo cerca a questa età di comunicare, richiamando l’adulto (es. mamma, papà).
A circa 12 mesi il bambino esprime le sue prime parole. A 16 mesi il vocabolario medio di un bambino è di circa 50 parole.
Dai 18 mesi si assiste al fenomeno dell’esplosione del vocabolario. Il bambino a 30 mesi conosce e pronuncia circa 150 parole ed incomincia a sviluppare le prime frasi. Dai 24 ai 36 mesi, la capacità linguistica del bambino si sviluppa con una rapida accelerazione fino alla produzione di frasi complete.
I bambini in età prescolare con DSL non sono in grado di mettere assieme le parole per comporre frasi complete, fanno fatica ad imparare le parole nuove e fare conversazione, talvolta non comprendono bene quello che noi diciamo a loro. Di conseguenza anche gli errori grammaticali sono frequenti.
Molti adolescenti che hanno manifestato un ritardo di linguaggio da bambini, quando diventano più grandicelli raggiungono le capacità dei coetanei, altri però non superano tutte le difficoltà linguistiche. Se permangono nell’adulto, comportano un uso limitato di frasi complesse, difficoltà a trovare le parole giuste, difficoltà a comprendere il linguaggio figurato, problemi di lettura, disorganizzazione nella scrittura e nel racconto oltre a frequenti errori grammaticali e di ortografia.
Ogni qualvolta il pediatra, l’insegnante o un genitore sospetta che un bambino sia affetto da un ritardo del linguaggio, va interpellato il foniatra che é lo specialista della comunicazione. Egli si avvarrà di un logopedista che può valutare le abilità linguistiche del bambino attraverso l’osservazione diretta del bambino, interviste e questionari compilati anche da genitori e insegnanti, valutazione diretta della capacità di apprendimento del bambino, test in grado di valutare perfettamente le capacità linguistiche.
Questi strumenti consentono al logopedista di confrontare le abilità linguistiche del bambino con quelle dei coetanei, identificare difficoltà specifiche e pianificare gli obiettivi del trattamento.

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Virus e tumori

I virus sono organismi molto piccoli; la maggior parte non può nemmeno essere vista con un normale microscopio. Il virus ,per allo più, cerca di entrare in una cellula vivente per assumerne il controllo, riprodursi e produrre altri virus. Alcuni lo fanno inserendo il proprio DNA (o RNA) in quello della cellula ospite. Quando il DNA o l’RNA influenzano i geni della cellula ospite, possono farle perdere il controllo e spingere la cellula verso lo sviluppo di un tumore maligno.
In generale, ogni tipo di virus tende a infettare solo un certo tipo di cellula del corpo. (Ad esempio, i virus che causano il comune raffreddore infettano solo le cellule che rivestono il naso e la gola.)
Diversi sono i virus in grado di indurre lo sviluppo di un cancro. La nostra crescente conoscenza del ruolo di questi virus, come causa di tumori, ha portato allo sviluppo di vaccini per aiutare a prevenirne la formazione. Ma questi vaccini possono proteggere dalle infezioni solo preventivamente, quindi devono essere somministrati prima che la persona sia esposta all’infezione del virus.
I papillomavirus umani (HPV) sono oltre 150 virus diversi. Sono chiamati papillomavirus perché alcuni di loro causano papillomi, che sono più comunemente noti come verruche. Alcuni tipi di HPV crescono solo sulla pelle, mentre altri ancora crescono nelle mucose che rivestono la bocca, la gola o la vagina.
Tutti i tipi di HPV si diffondono per contatto diretto. Più di 40 tipi di HPV possono essere trasmessi con un semplice rapporto sessuale. La maggior parte delle persone sessualmente attive viene infettata da uno o più di questi tipi di HPV nel corso della vita. Almeno una dozzina di questi tipi possono però provocare il cancro.
Mentre le infezioni da HPV sono molto comuni, il carcinoma causato dall’HPV è piuttosto raro. La maggior parte delle persone infette da HPV non svilupperà un cancro correlato all’infezione. Tuttavia, i più sfortunati, specialmente quelli con infezione che perdura da tanto tempo e con alcuni ceppi particolarmente aggressivi, rischiano di sviluppare un tumore maligno nella sede dell’infezione.
La presenza di papillomavirus sulle mucose può causare verruche genitali, anche se più spesso di solito non si manifestano con sintomi. Non esistono farmaci o altri trattamenti efficaci per l’HPV, a parte la rimozione o la distruzione delle cellule infette. Quindi, nella maggior parte delle persone, fortunatamente, il sistema immunitario riconosce l’infezione da HPV o se ne libera senza bisogno di cure.
L’HPV svolge comunque un ruolo fondamentale nel causare il cancro dell’utero, del pene, dell’ano, della vagina, della vulva, ma anche della bocca e della gola.
Anche il fumo é collegato a questi tumori e può agire assieme al virus HPV aumentando il rischio di carcinomi.
Oggi sono disponibili vaccini che aiutano a proteggere bambini e giovani adulti dalle infezioni dei principali tipi di HPV più pericolosi aggressivi. La vaccinazione HPV può aiutare a prevenire oltre il 90% di questi tumori. Questi vaccini sono approvati per l’uso sia nelle femmine che nei maschi. Purtroppo però non fermano né aiutano a curare un’infezione già in corso. Per essere più efficace, la serie di vaccini deve essere somministrata prima che una persona inizi l’attività sessuale. La vaccinazione HPV ha dimostrato infatti di funzionare meglio se somministrata a ragazzi e ragazze di età compresa tra 9 e 12 anni.
La vaccinazione di recupero negli adulti, è raccomandata per le donne fino a 26 anni che non sono state precedentemente vaccinate o che non hanno completato il ciclo vaccinale. Non è prevista di routine dopo i 26 anni.

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L’udito del musicista

Nel recente film Sound of Metal, vincitore del premio Oscar, il batterista di una band heavy metal sviluppa un grave acufene e una profonda sordità. La vita di Ruben, questo il suo nome, viene sconvolta quando si rende conto di essere destinato a perdere l’udito. Che il suo problema sia nato a causa della sua vita di musicista rock o per un’altra causa non specificata, la sua carriera, e di conseguenza la sua vita ne risultano devastate.
I musicisti sono generalmente molto preoccupati per la loro percezione dei suoni, poiché sono consapevoli del loro rischio quotidiano di perdere l’udito, esattamente come tutti i lavoratori esposti a forti rumori. Poiché la sensibilità della loro percezione dei suoni si riflette direttamente sulle loro performances, essi sono spesso sensibili anche alle minime variazioni nel loro udito e sono consapevoli che se le cose peggiorano, la loro carriera potrebbe essere a rischio. Dal 2008, i regolamenti sul controllo del rumore sui posti di lavoro, si applicano a tutti i luoghi di lavoro senza eccezioni. Questo vale anche per quelli dove si esibiscono i musicisti, come sale da concerto e studi di registrazione. Le normative stabiliscono che un’esposizione al rumore per oltre otto ore giornaliere sopra gli 80 decibel, richiede ai datori di lavoro di fornire informazioni, formazione e mettere a disposizione i sistemi appropriati per la protezione dell’udito. Quando il suono raggiunge gli 85 dB, i datori di lavoro sono tenuti ad adottare alcune misure per attenuarlo, imporre l’uso di protezioni e garantire la sorveglianza della salute dell’udito. I musicisti sono spesso esposti a livelli di pressione sonora ben al di sopra di queste cifre e, se è vero che molti di essi non lavorano otto ore al giorno, le intensità di suono cui sono sottoposti sono talmente elevate da provocare danni anche per esposizioni più brevi. Le conclusioni dello studioso e musicista Chris Alden sono incontrovertibili: “In una tipica giornata di due sessioni (sei ore), i musicisti della BBC Symphony Orchestra sono risultati esposti a intensità medie decisamente al di sopra dei limiti imposti. I livelli più alti si sono registrati nelle sezioni delle trombe e nei tromboni, mentre i livelli più bassi nella parte anteriore dei violini e del direttore d’orchestra.
Oltre a sottoporre i musicisti a regolari test dell’udito, le orchestre sono tenute a raccomandare l’uso di tappi per le orecchie sia durante le prove che durante le esibizioni. Scudi acustici trasparenti davanti alle sezioni di ottoni sono frequenti nei concerti. I musicisti vengono anche spesso posizionati a livelli diversi, con gli ottoni sollevati per proteggere i banchi posteriori delle sezioni degli archi.”
Tutti i musicisti dovrebbero essere consapevoli della probabilità della perdita dell’udito indotta dal rumore e incoraggiati a monitorare il proprio ambiente sonoro utilizzando i misuratori di decibel, che ora sono facilmente scaricabili gratuitamente come app per telefonini.
L’uso di tappi per le orecchie con attenuazione del rumore tra i musicisti è ancora peró troppo basso, poiché (sostengono molti) modifica il suono e influisce sulla loro capacità di percepire il proprio modo di suonare. “Tuttavia, l’uso di tappi per le orecchie dovrebbe essere incoraggiato sia quando si suona in privato, sia durante le prove in orchestra e, infine, durante le esibizioni”. Esistono oggi tappi per le orecchie creati su misura e muniti di filtri regolabili.
I musicisti pop e rock sono spesso esposti a livelli di rumore ancora più elevati, e una recente revisione sistematica della letteratura ha rilevato che il 63,5% di essi manifesta un calo dell’udito, contro il 32,8% dei musicisti classici. In genere, sono le frequenze acute ad essere le prime interessate. I violinisti tendono talvolta a soffrire di una maggiore perdita dell’udito nell’orecchio sinistro poiché è più vicino al violino.
Sempre dallo stesso studio si evince che circa il 25% dei musicisti lamenta la presenza di un fastidioso fischio all’orecchio (acufene). La perdita uditiva, il fastidio percependo certi suoni e l’acufene sono più comuni nei musicisti rock e pop rispetto a quelli classici.

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ATM-TMD

L’articolazione temporomandibolare (ATM) consente il movimento della mascella rispetto alle ossa temporali del cranio, e si trova proprio davanti a ciascun orecchio. Consente di muovere la mascella su e giù e da un lato all’altro e questi movimenti sono indispensabili per parlare, masticare e sbadigliare.
I disturbi alla mascella e ai muscoli del viso che la controllano sono noti come disturbi temporomandibolari (TMD). I muscoli che fanno muovere la mascella sono tra i più potenti del corpo.
Lesioni alla mascella, all’articolazione o ai muscoli della testa e del collo, come ad esempio un forte trauma o un colpo di frusta, possono portare a TMD. Altre cause peró portano a questi fastidiosi disturbi come per esempio: digrignare o serrare i denti, ma anche l’artrite nell’articolazione e così pure lo stress, che può far contrarre i muscoli facciali e della mascella o stringere i denti
Il TMD spesso causa forte dolore e disagio. Può essere temporaneo, ma talora dura diversi anni. Colpisce più donne che uomini, spesso nell’età compresa tra 20 e 40 anni.
I sintomi sono: dolore al volto, alla mandibola, ma anche al collo e alle spalle, spesso dentro o attorno all’orecchio soprattutto durante la masticazione. Può essere ridotta o ostacolata la apertura della bocca e talvolta si arriva al blocco della mandibola in apertura o chiusura. Piú frequentemente può essere percepito un clic, uno schiocco nell’articolazione della mascella quando si apre o si chiude la bocca o si mastica. Alle volte si associa a dolore anche intenso.
Talvolta ancora i fastidi si confondono con un comune mal di denti, mal di testa, dolori al collo, vertigini, mal d’orecchio, problemi di udito, dolore alla parte superiore della spalla. Un sintomo che molto spesso é dovuto a questa lesione é il ronzio nelle orecchie, i fastidiosi acufeni. Alcune persone con problemi all’ATM o al collo sono in grado di alterare l’intensità del loro acufene muovendo la bocca, la mascella, il viso e il collo. Un disturbo associato ai problemi dell’ATM può anche aggravare un acufene preesistente. Ci sono alcune prove scientifiche a sostegno del fatto che le terminazioni nervose del collo abbiano connessioni con i centri uditivi nel cervello, spiegando come patologie del collo possano influenzare l’acufene. Molto spesso l’acufene associato a queste lesioni può essere particolarmente grave e associato ad altri sintomi come mal di testa, depressione e problemi di memoria e concentrazione.
La cura prevede diversi gradi di intervento. I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) possono alleviare il dolore muscolare e il gonfiore nella fase acuta.
Aiutano talvolta impacchi con calore umido altre volte impacchi freddi.
Naturalmente é necessario scegliere con attenzione le consistenze del cibo. Vanno favoriti cibi morbidi come yogurt, purè di patate, ricotta, zuppa, uova strapazzate, pesce, frutta e verdura cotta, fagioli e cereali. Evitati assolutamente i cibi duri e croccanti (come salatini e carote crude), bocconi gommosi (caramelle) e morsi troppo grandi che richiedano una apertura ampia della bocca.
Anche appoggiare il mento sulla mano dovrebbe essere evitato.E così pure il tenere il telefono tra la spalla e l’orecchio.
Va ridotta la pressione sulla mascella tenendo i denti leggermente divaricati il più spesso possibile. Si consigliano anche tecniche di rilassamento per sciogliere la mascella, utile naturalmente la fisioterapia o i massaggi.
La stimolazione nervosa elettrica transcutanea (TENS), che utilizza correnti elettriche di basso livello può fornire sollievo dal dolore rilassando l’articolazione della mascella e i muscoli facciali.
Gli ultrasuoni, apportando calore in profondità, applicati all’articolazione possono alleviare il dolore e migliorare la mobilità.
Le onde radio stimolano favorevolmente l’articolazione, aumentando il flusso sanguigno.
Per le persone che digrignano i denti o serrano la mascella, va realizzato un dispositivo (byte) per il morso, in modo da correggere il movimento della mascella e ridurre le sollecitazioni e i carichi su di essa.

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sleep tracker

Certi giorni ci svegliamo riposati. Altri, sembra di aver dormito a malapena, altre notti ancora il sonno ci pare decisamente pessimo. Ciò che rende le notti talvolta serene, altre tormentate non è sempre chiaro, ma un tracker del sonno ci può aiutare a spiegarlo. Di cosa si parla? Sono stati recentemente sviluppati sistemi per il monitoraggio del nostro sonno. Si chiamano sleep tracker, smart speaket, smartwatch, wearable e sono diversi sistemi creati con un analogo scopo: il monitoraggio del nostro sonno. Mentre i test del sonno professionali generalmente si basano sull’attività cerebrale, cardiaca e respiratoria, piccoli oggetti facilmente reperibili si affidano a sensori per rilevare altri segni fisici. Alcuni dispositivi si indossano per tutta la notte e sono in grado di misurare diversi dati. Altri tracker possono essere appoggiati sul materasso, sotto il materasso o accanto al letto per raccogliere informazioni in modo discreto. Esistono anche indumenti collegati con sensori, e addirittura una linea di biancheria intima munita di sensori tessili che consentono di misurare frequenza respiratoria, frequenza cardiaca, livello di profondità del sonno e posizione del corpo. Praticamente tutti i tracker del sonno inviano i loro dati su un dispositivo computerizzato che li elabora per mezzo di un algoritmo in grado di analizzare e visualizzare i risultati. Per lo più sono tutti in grado di misurare, le ore in cui dormiamo, i movimenti che facciamo nel sonno, le fasi del nostro sonno. I tracker del sonno più avanzati ci danno anche delle informazioni circa quanto russiamo e come respiriamo durante la notte.
Alcuni poi hanno alcune caratteristiche particolari. Ad esempio alcuni possono misurare anche la temperatura, l’umidità, le variazioni di luminosità presenti nella nostra stanza, per poi incrociare i dati rilevati con statistiche sul sonno di un numero significativo di persone. Altri, con analisi particolarmente raffinate possono dare indicazioni su come recuperare un sonno più riposante. Molti di questi dispositivi sono in genere sufficientemente affidabili e precisi per consentire agli utilizzatori d’identificare le tendenze e ottenere informazioni preziose sulla qualità e sulle abitudini riguardanti il loro sonno.
In ogni caso, se i dati raccolti da questi dispositivi da un lato possono aiutare a evidenziare problemi o abitudini di sonno sbagliate, dall’altro lato, ciò che gli stessi non possono fare è una diagnosi di eventuali disturbi del sonno.
Sarà pertanto lo specialista del sonno che, anche alla luce dei dati raccolti con lo sleep tracker, potrà fare una diagnosi e dare delle indicazioni, delle cure mediche o degli interventi chirurgici per trattare questi problemi.
Chi soffre di turbe del sonno dovrebbe preferibilmente evitare il “fai-da-te” e consultare uno specialista.

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Cavie di un siero sperimentale

Uno dei cavalli di battaglia di chi resiste al vaccino é l’affermazione “ci iniettano un siero sperimentale, non vogliamo essere le cavie di nessuno!”
Si tratta di una affermazione facilmente smontabile anche solo sul piano lessicale. Chi la sostiene non conosce il significato dei termini che usa. Non sarebbe difficile verificarlo in rete con una rapidissima ricerca Google. Consultando Wikipedia chiunque può apprendere che: “Il siero è il liquido tratto dal sangue, formato da plasma senza fibrinogeno, fattore VIII, fattore V e protrombina”. Elementare pertanto la conclusione: il vaccino non é siero.
La seconda parola “sperimentale”, viene utilizzata in maniera subdola per confutare la sicurezza del vaccino stesso e cavalcare le paure delle persone. Wikipedia ci spiega con una sintesi molto comprensibile le tappe della sperimentazione di un farmaco. Leggiamo: “Le fasi della ricerca clinica sono le fasi in cui gli scienziati conducono esperimenti a scopo sanitario per ottenere prove sufficienti per considerare efficace un trattamento medico. La ricerca clinica viene condotta su farmaci, vaccini, nuovi dispositivi medici e nuovi test diagnostici.” E ancora: “Per lo sviluppo dei farmaci, le fasi cliniche iniziano con test di sicurezza su pochi soggetti umani, quindi si espandono a molti partecipanti allo studio (potenzialmente decine di migliaia) per determinare se il trattamento è efficace.”
La reale sperimentazione prevede poi varie fasi che sono scandite nettamente. Si inizia sempre con la cosiddetta sperimentazione preclinica su modelli sperimentali non umani. Si passa poi alla sperimentazione su volontari umani per verificare la farmacocinetica (assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione), la sicurezza clinica e l’efficacia. Solo dopo il superamento di queste fasi si passa alla messa in commercio del prodotto. Il vaccino termina allora di essere sperimentale ma si mantiene una sorveglianza vigile che si protrae per tutto il periodo in cui il vaccino é sul mercato.
Le pretestuose resistenze al vaccino giocano sull’equivoco, confondendo la fase post marketing che si chiama farmacovigilanza con una fase sperimentale che per ogni farmaco in commercio é già ampiamente superata.
Ben venga quindi la farmacovigilanza, cioè “gli studi eseguiti dopo che un farmaco è stato messo in uso che riguardano milioni di pazienti, e consentono valutazioni statistiche più accurate, con un campione di scala grande a sufficienza per mettere in risalto effetti che riguardano il 2% della popolazione, come un aumento della mortalità pari al 2%, una percentuale non rilevabile negli studi preliminari su piccoli gruppi di pazienti.” Tutti i farmaci attualmente in commercio sono sotto continua osservazione in farmacovigilanza, anche i vaccini che tanto spaventano.

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Vertigini e sport

Tra le differenti forme di vertigine, va considerata quella che alcuni pazienti definiscono come “giramenti della testa” che compaiono a seguito di esercizi fisici. Spesso durante uno sforzo, un allenamento, una serie di esercizi in palestra possiamo avvertire la netta sensazione di vertigine. La testa gira, siamo instabili, dobbiamo fermarci, sederci, talvolta stenderci a terra. Ma perché sempre sotto sforzo?
Durante l’allenamento i muscoli assorbono grandi quantità di ossigeno. La respirazione, la frequenza e la forza cardiaca aumentano in modo che il sangue più ossigenato possa fluire nei muscoli. Quando la respirazione si riduce, soprattutto dopo un esercizio, il cuore potrebbe non pompare abbastanza sangue ossigenato nel cervello. Le vertigini infatti possono verificarsi ogni volta che il cervello è “a corto” di ossigeno. Sappiamo però esattamente come comportarci in questi casi: ci si siede sul pavimento, si eseguono tre respiri profondi espirando lentamente e in poco tempo ritorniamo stabili.
C’è però un’altro meccanismo: forzare troppo durante l’allenamento può far abbassare la pressione sanguigna o causare disidratazione. Anche in questo caso possiamo sperimentare una sensazione di stordimento, vertigini o svenimento. Se sentiamo comparire le vertigini é consigliabile interrompere un minuto per rinfrescarsi, riprendere fiato e far rallentare la frequenza cardiaca. È anche indispensabile bere più acqua possibile per reidratare i muscoli. La disidratazione si verifica ogni volta che l’organismo perde più acqua di quanta ne assume.
Durante l’allenamento, poi, la temperatura corporea aumenta. Il corpo suda per rinfrescarsi. Si perde molta acqua durante ogni esercizio fisico intenso, soprattutto in una giornata calda. Oltre alle vertigini, in questi casi i sintomi sono: bocca asciutta, sete estrema, fatica per il più piccolo sforzo.
Ci si deve pertanto assicurare di avere liquidi a sufficienza per sostituire quelli persi durante l’allenamento e programmare brevi pause per la reidratazione anche in assenza di sete.
Altre volte ancora si tratta di abbassamento degli zuccheri nel sangue, anche questi vanno reintegrati. Nello sforzo fisico i muscoli infatti consumano più energia del normale.
Durante i primi minuti di esercizio, il corpo attinge allo zucchero (glucosio) presente nel flusso sanguigno e nei muscoli per produrre energia. Una volta che questo è esaurito, la glicemia scende. Il corpo attinge allora alle riserve, consumando il glucosio dal fegato. Il cervello necessita di glucosio per funzionare normalmente. Quando il cervello aumenta la richiesta di glucosio, possono comparire le vertigini. Sintomi di abbassamento di zucchero includono: sudorazione, tremore, confusione, mal di testa, affaticamento.
Un altro elemento che può essere causa di vertigini é la pressione del sangue. Essa è normalmente al suo punto più basso circa 30-60 minuti dopo l’esercizio. Alcune persone sperimentano un calo molto rapido. Questo può accadere durante qualsiasi tipo di esercizio, ma può essere più comune quando non ci si riesce a rinfrescare durante e dopo un allenamento massimale.
In questi casi infatti, il cuore e i muscoli lavorano in stato di affaticamento per mantenere il pompaggio del sangue che serve per garantire ai muscoli l’ossigeno di cui hanno bisogno.
Interrompere bruscamente un allenamento, fa si che il cuore e i muscoli tornino rapidamente al loro ritmo normale. Potrebbe volerci un po’ più di tempo prima che i vasi sanguigni si adattino. Di conseguenza il sangue ossigenato può fluire al cervello a un ritmo più lento del normale. In queste situazioni gli episodi vertiginosi sono più violenti e improvvisi. La posizione seduta, con la testa tra le ginocchia é quella che ci garantisce di non cadere e riprenderci al più presto favorendo l’arrivo di sangue ricco di ossigeno al cervello.

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La memoria del nostro sistema immunitario

Siamo tutti disorientati dalle notizie dei continui cambiamenti delle modalità e dei tempi di esecuzione dei richiami dei vaccini antiCovid. Questo dipende da un lato da una insufficiente disponibilità e dall’altro dalla fretta di raggiungere una consistente percentuale di immuni in tempi brevi. Ci si é chiesto anche se é opportuno che i guariti necessitino di un vaccino e di quante dosi. L’ Istituto Superiore di Sanità, ha stabilito che chi ha già incontrato il SARS-CoV-2 riceve una sola dose di vaccino da 3 a 6 mesi dopo aver contratto la malattia. Ma non sarebbe meglio destinare queste dosi per ampliare la platea dei vaccinati, almeno con una dose?
Quando il nostro sistema immunitario viene a contatto per la prima volta con un vaccino (o un virus), si attivano due principali tipi di cellule: i linfociti B e T. Dei primi, alcuni producono anticorpi, altri diventano cellule di memoria. Queste cellule sono “dormienti”, ma producono anticorpi specifici ad un nuovo incontro col vaccino. I secondi, i linfociti T, eliminano direttamente le cellule infettate. La prima risposta ad una infezione é generalmente debole, quindi ecco perché, per la maggior parte dei vaccini, occorre il “richiamo”. In poche parole le cellule con questa “memoria immunologica” sono molto più reattive. Alcuni lavori scientifici sostengono che questa sia la nostra principale difesa contro il virus SARS-CoV-2. Su questa memoria possiamo fare grande affidamento, perché perdura a lungo nel tempo e nei pazienti dopo un anno di malattia é ancora molto efficace. Dai dati disponibili sappiamo che la produzione di anticorpi delle persone ex-Covid e vaccinate con singola dose di vaccino ad mRNA (Pfizer o Moderna) è da 10 a 45 volte superiore rispetto a quella di persone che non hanno mai incontrato il virus e vaccinate con prima dose, e di 6 volte rispetto a quella degli stessi individui dopo la seconda dose.
Proteggere gli exCovid é quindi molto importante con una dose di vaccino, come altrettanto importante é raggiungere il maggior numero di vaccinati in un breve periodo. Ci conforti comunque la consapevolezza di avere il sistema immunitario dotato di una memoria formidabile quindi teniamola attiva vaccinandoci senza esitazioni.

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Dimmi come dormi e ti dirò chi sei

Dormi sulla schiena, sul fianco o sulla pancia? Hai una posizione preferita per dormire, oppure puoi cambiarla di tanto in tanto? Il modo in cui dormi a volte, nel corso della vita può modificarsi. In tutti i casi, assumere una postura corretta durante il sonno può fare una grande differenza e il modo in cui ti senti quando ti svegli ne subisce le conseguenze.
Trascorriamo un terzo della nostra vita dormendo o riposando, quindi è importante scegliere la posizione del sonno che aiuti il corpo nel recupero fisico. Una posizione corretta può alleviare lo stress sulla colonna vertebrale, mentre una posizione malsana può aumentare il dolore o la rigidità non solo alla schiena, ma anche alle braccia o alle spalle.
Dormire in modo sbagliato può causare o aggravare il dolore alla colonna cervicale e lombare. Può anche ostruire le vie aeree, causando russamento e anche patologie come l’apnea ostruttiva del sonno. Alcune ricerche suggeriscono addirittura che una posizione sbagliata può far sì che le tossine vengano eliminate più lentamente.
Circa il 7% delle persone dorme a pancia in giù. Questa è chiamata posizione prona. Essa può aiutare ad alleviare il russamento impedendo le ostruzioni delle vie aeree. Ma dormire in questa posizione può peggiorare alcune condizioni. Il collo e la colonna vertebrale non sono, infatti in posizione neutra. Ciò può aumentare un dolore al collo o alla schiena. Il decubito sull’addome può esercitare pressione sui nervi e causare intorpidimento, formicolii e dolori. Con la testa girata di lato molte persone tengono le braccia avvolte attorno a un cuscino o infilate sotto il cuscino stesso. Anche questa posizione può riflettersi su inadeguate posizioni della colonna.
Dormire sulla schiena si definisce: in posizione supina.
In alcune persone questa posizione potrebbe causare dolore lombare. Può anche peggiorare un mal di schiena preesistente, quindi questa non è la migliore posizione per dormire, soprattutto per chi soffre di ernia lombare. Anche russamento e apnea notturna sono più evidenti in questa posizione. Le donne, tra l’altro, dovrebbero evitare questa posizione durante la gravidanza avanzata.
Ci sono però anche benefici per la salute nel dormire sulla schiena. La testa, e la colonna vertebrale sono in una posizione neutra, quindi è meno probabile che ne derivi un dolore al collo. Dormire sulla schiena con la testa leggermente sollevata con un piccolo cuscino è considerata la migliore posizione per dormire anche per ridurre il bruciore di stomaco.
La posizione di riposo laterale è di gran lunga la più comune.
Questa posizione è certamente da favorire per coloro che russano. Tuttavia, nei casi di alcune forme di artrite, dormire in posizione laterale può farti sentire dolorante. Raggomitolarsi può anche impedire di respirare profondamente perché così facendo potrebbe essere compresso il diaframma.
È possibile che dormire su un fianco faccia bene al cervello. Gli scienziati hanno recentemente scoperto che il nostro cervello elimina le tossine più rapidamente mentre dormiamo di lato.
Sebbene chi dorme di lato goda però di molti vantaggi, uno svantaggio può intervenire con l’età: poiché si preme sul viso in posizione laterale, questa postura può favorire la comparsa di rughe facciali anche permanenti.
Chi soffre di allergie o naso chiuso, usa spesso più cuscini per sostenere la parte superiore della schiena in modo da essere in posizione sollevata, senza comprimere la colonna vertebrale. Questo posizionamento può consentire alle vie aeree di rimanere aperte e può aiutare a drenare il naso. Sdraiarsi sulla schiena, infatti potrebbe aumentare la congestione nasale.
Conoscere il lato migliore su cui dormire può ridurre i sintomi del reflusso acido. Dormire sul lato destro può causare la fuoriuscita di contenuto acido attraverso l’esofago. Dormire sullo stomaco o sulla schiena peggiora anche i sintomi della malattia da reflusso faringolaringeo. Per ridurre il rischio di problemi di reflusso, i pazienti di solito dormono meglio sul lato sinistro.
Ed infine: può la nostra posizione nel letto dare indicazioni sulla nostra “personalità”? Negli anni ’70 e ’80, alcuni ricercatori affermavano di poter osservare le posizioni del sonno per prevedere se qualcuno fosse impulsivo, femminile, ansioso, sicuro di sé, e addirittura se poteva essere ipnotizzato.
Studi più recenti hanno messo in dubbio queste teorie.
Un tentativo recente di associare i tratti della personalità alle posizioni del corpo durante il sonno si è dimostrato molto poco significativo. Ha mostrato infatti solo una “relazione molto debole tra le posizioni del sonno e la personalità” e, utilizzando le previsioni dei modelli precedenti, non è riuscito a mettere in relazione in modo affidabile la posizione nel letto ed i tratti della personalità dei partecipanti.

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L’estate del gregge

La bella notizia é che le regioni stanno per diventare bianche. Lo stivale, fino a poco tempo fa tutto rosso, si scolorisce progressivamente. Quali sono le ragioni di un tanto atteso miglioramento? Calano i nuovi infettati dal coronavirus: ma é perché cambia la stagione e ci avviciniamo al clima estivo o calano per l’efficacia della campagna vaccinale e sentiamo già i benefici dell’effetto gregge? La domanda é lecita e la ricerca di una risposta ci serve per chiarire alcuni punti ancora oscuri. Se si considera l’influenza della stagione sulla diffusione del Sars-Cov2 ancora molti si ostinano a negarla. Guido Silvestri, noto patologo, immunologo e virologo, afferma: “la stagionalità dei virus respiratori (compresi i coronavirus) nelle regioni a climi temperati è un fenomeno conosciuto da secoli e perfettamente spiegabile da un punto di vista immunologico e virologico, a partire dal fatto che le persone d’estate passano più tempo all’aperto e vivono più distanziate tra loro”.
I negazionisti della stagionalità del coronavirus però ribattono: “e allora in India e Sudamerica?” La risposta della comunità scientifica é piuttosto semplice: si tratta di climi tropicali, quindi completamente diversi dal clima temperato nel quale viviamo noi. Silvestri continua: “L’effetto “protettivo” dell’estate in Europa e Nord America si è visto ovunque, indipendentemente dalle restrizioni usate, in Svezia esattamente come in Italia”.
Se quindi questo ragionamento può valere come risposta a coloro che insistevano a chiudere tutto, invocando strette misure di confinamento, d’altro lato non deve giustificare posizioni di resistenza al vaccino con la semplicistica giustificazione: “tanto ci penserà l’estate”.
Il premier Draghi si è dimostrato saggio e ben consigliato e nella sua riapertura ragionata e progressiva ha tenuto conto consapevolmente anche di questo fondamentale fattore. In autunno, con l’arrivo della cattiva stagione, non ci si potrà distrarre e, consapevoli che la diffusione del virus sarà più facile, eventuali misure di contenimento potrebbero rendersi nuovamente necessarie. L’influenza spagnola del 1918-19 ebbe un terzo picco, più blando del secondo, ma notevolmente più grave del primo. Non é escluso che al termine della stagione estiva dovremo aspettarci nuove chiusure, coprifuoco, distanziamento e mascherina.
Non ci illudiamo che i vaccini già funzionino nel dare immunità di gregge quando le percentuali di persone vaccinate sono ancora relativamente basse. “Questo atteggiamento porterebbe a rilassare la campagna vaccinale, quando invece dobbiamo spingere tutti per vaccinare come matti, da adesso fino ad ottobre, in Italia come in Europa e Nord America, approfittando in pieno della tregua estiva, per arrivare a quella quota, che molti situano attorno al 70-80%, che davvero permetterà di stroncare la diffusione di SARS-CoV-2” conclude Silvestri.

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Long-Covid

A oltre un anno dall’inizio della pandemia sappiamo che il Covid19 può anche perdurare nel tempo e mantenere i sintomi anche dopo la negativizzazione del tampone. Per lo più, quando il risultato del tampone risulta negativo si parla di guarigione, ma non sempre é vero. Molteplici sono le manifestazioni della Long-Covid: questo il nome utilizzato oggi dai medici per definire l’insieme dei sintomi (fisici, neurologici, psichiatrici) riscontrabili in alcuni dei pazienti contagiatisi nei mesi scorsi.
“É difficile individuare esattamente quante persone sperimentano sintomi nuovi o persistenti dopo l’infezione da coronavirus”, afferma Mark Avdalovic, specialista in cure polmonari e critiche presso l’Università della California. C’è qualcosa che i ricercatori sperano di capire meglio.
Un primo studio pubblicato su Long COVID ha rilevato che oltre l’87% tra i 143 pazienti ospedalizzati con COVID-19 ha riportato almeno un sintomo persistente dopo la diagnosi di guarigione. Successivi studi, tuttavia, mostrano che la popolazione colpita è probabilmente molto più piccola. Un sondaggio nel Regno Unito ha rilevato che il 13,7% degli oltre 20.000 partecipanti risultati positivi al COVID-19 ha continuato a manifestare sintomi per almeno 12 settimane dopo l’infezione. Mediamente, aumentando il numero delle persone osservate gli esperti stimano che circa il 10% della popolazione che aveva contratto COVID-19 ha sintomi persistenti.
“La maggior parte delle persone con COVID non viene ricoverata in ospedale e molti sono giovani in età lavorativa. Quindi anche se solo una piccola percentuale di queste persone sviluppa condizioni post-COVID persistenti, matematicamente si tratta di numeri decisamente elevati “, afferma Possick.
Non c’è un sintomo particolare che definisce Long COVID. Le persone che lo sperimentano hanno accusato una serie di problemi, a volte più sintomi alla volta, dalla mancanza di respiro al dolore articolare e muscolare.
La condizione “di gran lunga” più comune descritta molto bene nei pazienti della Mayo Clinic è la stanchezza: persone che erano precedentemente attive si affaticano dopo attività ordinarie, addirittura quando accompagnano in passeggiata il cane.
Un altro sintomo frequentemente lamentato è la cosiddetta “nebbia del cervello”, cioè una difficoltà a pensare, “e sfortunatamente, di tutti i sintomi che i pazienti sentono interferire con le loro vite, questo è quello che incide maggiormente, poiché di solito si manifesta sul posto di lavoro: i pazienti non sono in grado di fare le cose che facevano normalmente e questo è particolarmente stressante per il paziente “, si legge nella pubblicazione della Mayo Clinic.
Lo studio ha verificato frequenze cardiache elevate, tosse persistente e intorpidimento o formicolio inspiegabili. L’ansia acuta, poi è un altro problema molto frequente.
Un recente studio pubblicato su The Lancet Psychiatry ha rilevato che fino a uno su tre sopravvissuti a COVID-19 sperimenta una turba della salute mentale o un disturbo neurologico nei primi sei mesi dall’infezione da coronavirus e conferma che l’ansia è tra i sintomi più comunemente presenti.
Alcuni di questi disturbi, come la nebbia del cervello e l’affaticamento, sono comunque frequenti in pazienti che trascorrono molto tempo in ospedale per qualsiasi tipo di malattia potenzialmente letale. Ma ciò che lascia perplessi gli esperti di salute è che durante questa pandemia stanno manifestandosi per la prima volta anche in persone che non hanno mai avuto bisogno di cure intensive o ricovero.
Quanto al meccanismo che provoca questo perdurare della sintomatologia: «il possibile risvolto su base autoimmune potrebbe giustificare la più elevata incidenza di questa sindrome nel sesso femminile», è l’ipotesi avanzata dai ricercatori dell’istituto Superiore di Sanità.
Fortunatamente si può affermare che, col tempo, la maggior parte dei pazienti Long-COVID migliora. La cosa importante è che le persone che manifestano sintomi persistenti dopo COVID-19 si facciano curare e che i membri della famiglia, gli operatori sanitari e i datori di lavoro prendano consapevolezza di questa sindrome.
“Queste condizioni post-COVID sono reali e frequenti”, afferma Possick. “Dobbiamo riconoscerle come un’entità reale e come qualcosa che sta influenzando molte persone in modo davvero significativo”.

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Occhiali da barca: possono essere la risposta al mal d’auto?

Laurel Palmer è un’audiologo di Toronto che soffre molto il di mal di mare (cinetosi). Per una rivista tecnica ha testato un recente brevetto: i cosiddetti “occhiali da imbarco” o “Boarding Glasses”. Li ha indossati nelle situazioni critiche in auto e in barca, per vedere se davvero possono dare un po’ di sollievo.
Molti di noi hanno sperimentato il disagio di un viaggio in auto lungo una strada piena di curve o una traversata in traghetto con il mare grosso. Il termine medico che definisce il mal di mare é appunto cinetosi.
Si verifica quando al nostro cervello arrivano informazioni contrastanti tra quello che vediamo e quello che ci segnala l’organo dell’equilibrio. Queste particolari situazioni di movimento provocano un vero e proprio conflitto sensoriale tra i nostri sistemi visivo e vestibolare. Ne deriva una serie di sintomi che vanno dalla stanchezza generale, alla nausea e al vomito violenti. La cinetosi colpisce quasi tutti gli individui con intensità diverse, e circa una persona su tre é considerata altamente suscettibile.
Personalmente sono sensibile al problema, poiché ho sofferto molto fino al conseguimento della patente di guida, quindi sono rimasto più che incuriosito quando ho sentito parlare di occhiali per il mal di mare.
L’azienda produttrice li descrive come un dispositivo medico con un’efficacia del 95%.
Gli occhiali anti cinetosi hanno una montatura con quattro ghiere circolari, due intorno alle lenti frontali e due laterali, sulle stanghette, che sono riempite a metà con un liquido blu che si muove liberamente all’interno del bordo.
Questo fluido fornisce un orizzonte artificiale che, a sentire l’azienda, aiuterebbe ad armonizzare la vista con i movimenti del capo.
Gli occhiali devono essere utilizzati all’inizio dei sintomi. Secondo il sito web del produttore, “dopo 10 minuti i tuoi sensi si “sincronizzeranno” e il viaggio potrà proseguire anche senza gli occhiali”.
Hanno funzionato? Lo sperimentatore di Toronto conclude: “Alla fine hanno aiutato in macchina, ma non li ho trovati particolarmente utili sulla barca. Durante il viaggio in auto, gli occhiali hanno aiutato a mantenere la nausea gestibile. Si è rapidamente risolta al termine del viaggio. Confronta questo con i casi in cui i sintomi potrebbero raggiungere il vomito a tutti gli effetti che potrebbe persistere per ore. Non mi sentivo però pronto a rimuoverli dopo 10 minuti e non sono diventato completamente asintomatico durante il viaggio in macchina stesso. Sfortunatamente per il mio giro in barca, direi che mi sono sentito male come se non indossassi affatto gli occhiali. Non solo sono stato giudicato il più nauseato del gruppo, ma probabilmente anche il più stupido.”
Le sue conclusioni non sono state per nulla incoraggianti:”Se sei regolarmente tormentato dalla cinetosi, non ti dispiace sembrare un po’sciocco e puoi sopportare il prezzo elevato, queste specifiche potrebbero valere la pena. Altrimenti, è meglio tenere a portata di mano i rimedi più affidabili e continuare a fissare quell’orizzonte.”

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Per i vaccinati valgono nuove regole

Il mantra di questi giorni é: vaccinare in fretta il maggior numero di persone possibile, in modo da concedere meno occasioni al SARS-Cov2 di spiazzarci mutando ulteriormente. Solamente in questo caso, infatti i vaccini possono offrire una copertura completa rispetto alle varianti conosciute.
Le linee guida uscite proprio oggi negli Stati Uniti a cura del Center for Disease Control (CDC) offrono nuovi scenari molto incoraggianti per chi si sottopone al vaccino. Finché non avremo raggiunto la percentuale che garantisce una reale immunità di gregge, però ci dovremo fare carico di una netta separazione tra i comportamenti suggeriti e consentiti ai vaccinati e quelli per coloro che sono ancora in attesa.
“Sappiamo che le persone vogliono essere vaccinate in modo da poter tornare a fare le cose che amano con le persone che amano”, ha detto il direttore del CDC Rochelle P. Walensky. “Ci sono alcune attività che le persone che hanno completato il ciclo vaccinale possono iniziare a riprendere da subito nelle proprie case. Tutti, anche quelli vaccinati, dovrebbero continuare con tutte le strategie di mitigazione quando si trovano in ambienti pubblici. Man mano che la scienza si evolve e sempre più persone vengono vaccinate, continueremo a fornire maggiori indicazioni per aiutare le persone completamente vaccinate a riprendere in sicurezza più attività “.
«I vaccini contro il Covid-19 – è riportato sul sito dell’ente – sono efficaci nel proteggerti dall’ammalarti. E le persone che sono state completamente vaccinate possono iniziare a fare alcune cose che avevano smesso di fare a causa della pandemia».
Gli studi confermano che i vaccinati possono incontrare in tutta sicurezza altre persone vaccinate in ambienti chiusi senza indossare maschere né rispettare la distanza di sicurezza. Questo vale anche in presenza di non vaccinati con l’esclusione di coloro che sono affetti da gravi patologie e quindi fragili.
I vaccinati inoltre potrebbero inoltre astenersi dalla quarantena e dai test se non presentano sintomi di COVID-19 dopo il contatto con un positivo.
Si considera che una persona abbia completato il ciclo completo di vaccinazione due settimane dopo aver ricevuto l’ultima dose del vaccino previsto. Sebbene il ritmo delle vaccinazioni stia accelerando, il CDC stima che solo il 9,2% della popolazione statunitense sia stata completamente vaccinata a tutt’oggi.
Sebbene la nuova guida sia un passo molto positivo, la stragrande maggioranza delle persone deve essere vaccinata completamente prima che le precauzioni COVID-19 possano essere revocate più estesamente. La prospettiva a breve termine è che sia introdotto una “Green card” che funzioni da passaporto vaccinale e dia accesso ad alcune attivitá.
Fino ad allora, è importante che tutti continuino ad aderire alle misure di mitigazione della salute pubblica per proteggere il gran numero di persone che rimangono non vaccinate. Il CDC raccomanda per ora che anche le persone vaccinate continuino a prendere le precauzioni COVID-19 quando sono in pubblico, quando visitano persone non vaccinate di altre famiglie e quando sono vicine a persone considerate fragili e “a rischio” non vaccinate.
Le raccomandazioni rimangono per ora quelle vigenti:
Indossa una maschera ben aderente.
Stai ad almeno 2 metri dalle persone estranee al tuo nucleo famigliare.
Sottoponiti al test se manifesti i sintomi del COVID-19.
Segui le indicazioni fornite dai singoli datori di lavoro.
Seguire sempre le raccomandazioni di viaggio del CDC e del dipartimento sanitario.

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lockdown e acufeni

Analizzando dopo un anno di pandemia come sono cambiate le patologie che afferiscono all’ambulatorio specialistico Orecchi-Naso e Gola, oltre alla drastica diminuzione dei pazienti con infezioni respiratorie si é manifestato un sensibile aumento di altre patologie. Il maggiore incremento lo hanno avuto i cosiddetti “fischi all’orecchio”.
I pazienti con acufeni sono stati colpiti moltissimo dagli effetti negativi del lockdown. Su questa amara conclusione concordano tutti gli specialisti in otorinolaringoiatria. All’Ospedale di Bari una ricerca eseguita su questo fenomeno e pubblicata sull’importante rivista scientifica internazionale European Archives of Oto-Rhino-Laryngology ha confermato un sensibile incremento di casi e aggravamento di sintomi.
“Questi pazienti, già colpiti duramente da una malattia che non lascia tregua nel corso degli anni di vita e per la quale spesso ci sono scarse soluzioni definitive, hanno subito un peggioramento della sintomatologia proprio durante le settimane di quarantena“, dice il dottor Paolo Petrone, coordinatore dello studio.
“Le cause riconducibili a questo peggioramento sono da ritrovarsi, secondo noi, e secondo i dati che abbiamo raccolto dallo studio di questi pazienti in diversi fattori. Il blocco del traffico e la diffusione di un silenzio cui non eravamo più abituati sono stati gli elementi chiave per la maggior parte dei pazienti affetti da acufeni che abita nei centri urbani ad alta densità di popolazione. Ma non solo, molti di questi pazienti, costretti a casa dalla quarantena, sono stati costretti a riorganizzare la propria vita lavorativa con lo smart-working, riducendo spostamenti e ritmi frenetici della vita quotidiana, oltre a ridurre tutti gli aspetti emotivi connessi alla interazione con colleghi e datori di lavoro. Ultima, ma non di minore importanza, è l’influenza psicologica determinata dalle costanti notizie dei media sulla diffusione del Coronavirus che ha sicuramente avuto un ruolo determinante nell’aumentare, in pazienti già affetti da problemi d’ansia e di tensione emotiva, la componente psicogena di metabolizzazione degli acufeni“.
Il blocco e l’isolamento hanno, quindi amplificato gli effetti e fastidio dell’acufene. “Molte persone affette da acufene vivevano da sole con questo costante fastidio alle orecchie e, senza altre distrazioni durante il blocco, il fastidioso rumore balza in primo piano nei loro pensieri in ogni momento della giornata”, afferma il dott. Domingo della Flinders University nel Regno Unito. “Quando non hai nient’altro che ti distragga, il rumore prodotto dall’acufene diventa molto fastidioso, soprattutto quando cerchi di addormentarti. È talmente pervasivo che in casi estremi si manifesta come la parte più sconvolgente della vita e, in taluni casi, aumenta fino a provocare un severo problema di salute mentale.”
Anche il COVID-19 stesso, in uno studio appena pubblicato da un gruppo di otorinolaringoiatri di Manchester é da considerarsi responsabile di acufeni e altri disturbi all’udito in circa il 14,8% di chi contrae il virus.

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Ancora sull’uso della mascherina

Il bilancio di un anno di cambiamento così profondo delle nostre abitudini ci offre un quadro molto significativo anche quando analizzano gli accessi all’ambulatorio specialistico di otorinolaringoiatria. Le patologie che vengono alla mia osservazione in questi giorni ad esempio, sono notevolmente diverse rispetto a quelle dell’anno scorso.
Il primo, e forse più evidente cambiamento é la drastica riduzione delle patologie infiammatorie acute delle vie respiratorie. Sarà stata la riduzione della circolazione di veicoli inquinanti e la minor quantità di particolato prodotto dai motori diesel? Alcuni studi sostengono che sono oltre 6000 in meno i casi di asma nei bambini, se confrontati con lo stesso periodo negli anni scorsi. Una delle motivazioni fa riferimento ad una sensibile riduzione del numero di veicoli circolanti sulle nostre strade.
Ci sono peró anche recenti pubblicazioni che associano la diminuzione delle patologie respiratorie all’uso delle mascherine.
Che le mascherine fossero utili per prevenire il contagio da virus e batteri era da tempo noto (lo conferma l’obbligo dell’uso in sala operatoria) ma ora è stato accertato che hanno anche il potere di ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare la forma grave di COVID-19, in caso di contagio.
La stagionalità delle malattie respiratorie è stata generalmente collegata all’abbassamento delle temperature, ma va soprattutto relazionata alla bassa umidità assoluta esterna e alla bassa umidità relativa interna, che aumentano l’evaporazione dell’acqua nel rivestimento mucoso delle vie respiratorie. L’uso della mascherina, oltre a limitare la diffusione dei germi, incrementa in modo esponenziale il grado di umidità dell’aria che penetra nel nostro albero respiratorio. La normale respirazione si svolge attivando un ciclo di assorbimento-riversamento all’interno delle maschere, in cui l’aria “sovrasatura” viene assorbita dalle fibre della maschera durante l’espirazione, seguita dall’evaporazione durante l’inspirazione di aria secca ambientale. Con le maschere di cotone a doppio strato, che hanno una notevole capacità termica, la temperatura dell’aria inspirata supera la temperatura ambiente e l’aumento effettivo dell’umidità relativa può superare il 100%.
L’effetto della maschera sulla riduzione delle infezioni avviene quindi principalmente per il forte aumento dell’umidità dell’aria inspirata. Questa elevata umidità favorisce l’eliminazione mucociliare dei patogeni dai polmoni, sia prevenendo la penetrazione di germi, sia, dopo che si sia verificata un’infezione del tratto respiratorio superiore, la loro eliminazione. Questo fenomeno, che chiamiamo clearance mucociliare, risulta molto efficace e può impedire o ridurre l’infezione del tratto respiratorio inferiore, mitigando anche la gravità nel caso di malattia. Questo meccanismo di azione ci fa comprendere che le maschere possono giovare a chi le indossa anche dopo che si è verificata un’infezione nel tratto respiratorio superiore, integrando la funzione tradizionale meccanica delle maschere nel limitare la trasmissione della malattia da persona a persona.
A casa, quando non portiamo la mascherina va, ove possibile organizzato l’uso di un umidificatore. Un gruppo di esperti di malattie infettive consiglia di impostarlo tra il 40 e il 60 percento di umidità relativa per “difendersi” dal coronavirus SARS-CoV-2. In questo range, infatti, il nostro sistema immunitario sarebbe più pronto e il patogeno circolerebbe nell’aria con maggiori difficoltà. Gli scienziati hanno lanciato una petizione da sottoporre all’OMS anche per promuovere il controllo e la regolamentazione dell’umidità anche nei locali pubblici.

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Two Masks Better Than One?

Il più noto infettivologo del pianeta, Anthony Fauci afferma in una recentissima intervista che indossare due maschere sovrapposte è meglio, quando si tratta di proteggersi dal coronavirus. Anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden indossa in pubblico la doppia mascherina.
Scopo della maschera è quello di impedire alle goccioline che trasportano il virus di raggiungere la bocca e il naso di una persona. In sostanza quindi: aumentare le barriere aumenta sensibilmente la protezione.
“Se otteniamo una protezione con uno strato, un secondo strato sovrapposto non può che aumentare l’ efficacia protettiva”, ha detto Fauci, direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive.
Le maschere FFP2 e FFP3 sono costose e il Center for Disease Control (CDC) raccomanda che siano riservate agli operatori sanitari, ma gli esperti sanitari ci confermano oggi che il doppio mascheramento è facilmente ottenibile e il gioco vale certamente la candela.
“Il doppio strato aggiunge una filtrazione extra, ma molti dei vantaggi derivano anche dall’assicurarsi di coprire gli spazi vuoti intorno alla maschera, perché non tutte le maschere che indossi si adattano allo stesso modo”, dice Alice Sato, MD, epidemiologa al Children’s Hospital & Medical Center di Omaha, NE.
Anche il doppio mascheramento è diventato un po ‘di moda poiché l’amministrazione Biden lo pone in primo piano. Le persone che hanno assistito all’inaugurazione potrebbero aver notato che la poetessa Amanda Gorman e Pete Buttigieg, il candidato di Biden per dirigere il dipartimento dei trasporti, portavano maschere di stoffa sopra maschere chirurgiche.
Come possiamo pertanto combinare efficacemente i diversi tipi di mascherina?
Per assicurarci la “massima protezione”, si dovrebbe indossare una maschera in tessuto sopra una maschera chirurgica, con la maschera chirurgica che funge da filtro e la maschera in tessuto che fornisce un ulteriore strato filtrante aggiuntivo migliorandone anche la vestibilità.
Una eccellente alternativa, dicono i ricercatori, sarebbe una maschera a tre strati con “strati esterni costituiti da un tessuto elastico a trama fitta che può adattarsi bene al viso e uno strato intermedio costituito da un materiale filtrante non tessuto ad alta efficienza”.
Il CDC afferma che le persone dovrebbero in ogni caso indossare maschere con due o più strati di tessuto lavabile che coprano il naso e la bocca e si adattino perfettamente al viso.
In conclusione, tutto ciò non deve indurre un falso senso di sicurezza che il doppio mascheramento significhi che non vadano rispettate altre precauzioni di salute pubblica. Va mantenuta rigorosamente la distanza fisica dalle altre persone e una attenzione massima al lavaggio delle mani.
Non importa quanti strati di tessuto contiene la tua maschera, assicurati che si adatti bene e abbracci il tuo viso senza lasciare spazi di accesso alla possibile nuvola di droplets. Questi infatti potrebbero consentire ai germi di fuoriuscire e infettare l’interlocutore o di entrare dall’esterno nelle vie respiratorie e favorire l’infezione.

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Anticorpi monoclonali: la grande speranza

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha accettato gli anticorpi monoclonali come trattamento del COVID-19. La notizia é una autentica rivoluzionaria evoluzione. Finora si é puntato molto sulla prevenzione e si é investito enormemente sui vaccini in grado di stimolare la nostra produzione di anticorpi prima che il virus SARS-COV2 si avvicini al nostro naso. Ma cosa succede se avviene il contatto in assenza di anticorpi? Il virus penetra, si moltiplica e ci ammaliamo. Le cure a disposizione si sono sensibilmente affinate dopo innumerevoli tentativi iniziali con i farmaci più vari, alcuni anche molto promettenti, ma nessuno fino ad ora si é dimostrato in grado uccidere o inattivare il virus con un effetto che sia confrontabile con quello dell’antibiotico nel caso dei batteri. Si cerca di contrastare gli effetti dell’infezione, ma il virus non si lascia aggredire. Sul fronte della cura, a malattia già in corso, quindi gli anticorpi monoclonali sono il primo farmaco diretto in maniera mirata contro il virus.
Ma di che cosa si tratta? Sono anticorpi sintetici, mirati, molto efficaci, creati in laboratorio. Riconoscono il virus, impediscono la sua entrata nelle cellule e soprattutto la sua moltiplicazione. Funzionano anche per diverse settimane come “scudo anticontagio”. La convinzione che siano effettivamente quanto di meglio ci sia stato messo a disposizione viene confermato dal fatto che gli anticorpi monoclonali prodotti dagli istituti Regeneron siano stati il cuore del trattamento effettuato sull’ex Presidente degli USA Donald Trump. All’uomo più potente del pianeta, che ipotizzava di iniettare disinfettante per sterilizzare i malati, sono stati proprio gli anticorpi monoclonali a risolvere in breve l’infezione. Anche questa cura, che é in grado di rivoluzionare la prognosi della malattia pandemica riducendo del 70% la mortalità, ha però alcuni importanti limiti.
Innanzitutto va somministrata nei primi giorni (72 ore) in cui compaiono i sintomi e non é altrettanto efficace nei casi gravi e avanzati. Si somministra con una unica infusione mediante una flebo endovenosa per un’ora, ma questo ne limita l’uso domiciliare. Inoltre il costo di circa 2000 euro, che corrisponde circa a quello di una giornata di ricovero in ospedale ne limiterà la somministrazione ai pazienti fragili e a rischio come i diabetici, anziani, obesi e cardiopatici.

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Quando il bambino russa

Può accadere che il russare dei nostri figli si aggravi a tal punto da provocare vere e proprie interruzioni prolungate della respirazione che chiamiamo apnee ostruttive.
Ci sono numerosi studi che ci confermano che le apnee notturne si possono ripercuotere su apprendimento, attenzione e memoria.
Si tratta di funzioni che nelle prime fasi della vita sono regolate dall’attività di una zona del nostro cervello che, per la sua forma particolare che assomiglia a un cavalluccio marino prende il nome di ippocampo. Nei bambini con apnee ostruttive il volume della materia grigia appare ridotto proprio nel’ippocampo sinistro. Le apnee impediscono quindi la normale crescita di quella parte del cervello che ci consente di avere la giusta attenzione per imparare le cose e la memoria per poterle assimilarle e ripeterle correttamente.
Tutto questo si può tradurre in deficit cognitivi di ampia portata e in problemi comportamentali che – non va dimenticato – riguardano un organismo in via di sviluppo come quello del bambino.
L’obesità è uno dei fattori di rischio principali che causano questi eventi dannosi.
Con un semplice esame notturno, mentre il bambino dorme vengono monitorati battito cardiaco, respirazione, livelli d’ossigeno e, se necessario, attività cerebrale, movimenti degli arti e movimenti oculari rapidi.
Alcuni pazienti pediatrici presentano rinosinusite cronica assieme alle apnee ostruttive del sonno. In questi casi, quando l’impatto sulla qualità della vita è lieve, si possono utilizzare farmaci a base di spray nasali, che consentono di alleviare i sintomi anche nel caso di eventuali riniti allergiche e di ridurre la respirazione prevalentemente orale.
L’intervento chirurgico di asportazione delle adenoidi e tonsille (adenotonsillectomia) consente di ridurre i sintomi nella maggioranza dei bambini, anche obesi, ma questi ultimi presentano una probabilità più alta di non risolvere completamente il loro problema. Tanto più alto è il peso, tanto minori sono i benefici dell’intervento.
L’adenotinsillectomia è l’approccio di prima linea per le apnee ostruttive del sonno in età pediatrica.
Per porre fine agli episodi di apnea ci si sta sempre più orientando verso tecniche e strumentazioni che rendono minime le probabilità di complicazioni e conseguenze gravi.
Si ricorre quasi sempre alla asportazione parziale delle tonsille, che diventa praticamente subtotale, ma con il rispetto e la conservazione della capsula tonsillare che riduce sensibilmente il dolore postoperatorio e soprattutto il rischio molto temibile di sanguinamento.
Negli interventi eseguiti su questi piccoli pazienti si registrano comunque tassi di emorragia post-operatoria significativamente inferiori rispetto a quelli che accompagnano gli interventi per tonsillite cronica, più spesso proposti nel giovane adulto. Non é comunque detto che più grandi siano le tonsille, maggiore sia il rischio di complicazioni postoperatorie.

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Perché il COVID19 ci fa perdere il gusto e l’olfatto

“Mentre mangiavo lo Yogurt mi sembrava di avere in bocca gesso” un medico descrive così la sensazione del primo sintomo del COVID19 che aveva contratto.
Uno degli aspetti più precoci di questa malattia, infatti é la perdita dell’olfatto. Si tratta di una aggressione del virus al nervo olfattorio, che si risolve spontaneamente nella maggior parte dei casi nel giro di pochi giorni. I più sfortunati, peró non lo recupera totalmente (circa il 10%).
Chi si rende conto di aver perso improvvisamente gusto e olfatto, é meglio che si sottoponga ad un test per accertare la presenza nel naso e nella gola del virus SARS-Cov2. Il tampone molecolare é oggi il metodo più semplice e facilmente reperibile. La perdita parziale o totale del senso dell’olfatto che segnala l’infezione da questo virus pandemico, é diversa da quella che la maggior parte di noi ha sperimentato nel corso di un raffreddore. Non si accompagna a ostruzione nasale o al colare di secrezioni che ostacolano la respirazione, e questo ci deve mettere in guardia.
L’anosmia che é la riduzione pressoché totale dell’ olfatto assieme all’ageusia (la riduzione fino all’esaurimento del gusto), possono rappresentare i primi e talvolta unici segni dell’infezione e richiedono di iniziare tempestivamente il percorso diagnostico del COVID-19.
Esiste l’ipotesi che questo virus, a pari di numerosi virus respiratori che hanno la maggior incidenza nel periodo invernale, possa, accanto alle vie classiche di invasione respiratoria, intestinale e cutanea, utilizzare anche la via nasale per raggiungere l’encefalo. Il meccanismo con il quale siamo in grado di riconoscere gli odori è apparentemente semplice: attraverso l’aria che inaliamo vengono trasportare all’interno della cavità nasale molecole odorose che interagiscono con l’epitelio olfattivo stimolando la sensazione olfattoria. Lungo lo stesso percorso il virus risale e penetra nel nostro organismo. Questa aggressione del nervo olfattorio può essere il segno precoce della entrata del virus. Fortunatamente la lesione virale del nervo é nella maggior parte dei casi transitoria. Nel 90% dei pazienti il recupero avviene entro le 4-8 settimane. Il 10% peró, purtroppo manifesta un danno definitivo e non riprende la capacità di percepire gli odori e gli aromi del gusto, ma ciò non corrisponde alla persistenza del virus e quindi alla possibilità di contagiare. Si tratta della cosiddetta “sindrome post-Covid” che si manifesta con: tosse, perdita del gusto e dell’olfatto, mal di testa, vertigini, insonnia, eruzioni cutanee, senso di profonda stanchezza e di “nebbia” nel cervello.

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COVID19: troppa confusione e poca informazione

Siamo arrivati al termine di un anno che molti hanno definito “horribilis” e che comunque resterà nei libri di storia.
Lo abbiamo vissuto tutti tra incertezze e paure, ma se facciamo il bilancio, cosa possiamo dire di aver imparato?
Si é capito ancora troppo poco per vedere la fine di questo tunnel. Sicuramente la malattia da SARS-Cov2 non é a tutt’oggi ben inquadrata. Prova ne é che il numero dei decessi é tuttora elevatissimo e, nonostante sia migliorata la capacità diagnostica e di trattamento, poco si sa su chi é a maggior rischio di non superare la malattia. Sappiamo che nelle terapie intensive muore circa il 10% del totale dei decessi. Dove muore il restante 90%: a casa o in reparto ospedaliero. Questo ce la dice lunga sull’insufficiente inquadramento della malattia e la sua scarsa conoscenza.
Organi di autorevolezza e riferimento come la Organizzazione Mondiale della Sanità si sono rivelati debolissimi, se non proprio dannosi. Pensiamo all’inizio della pandemia, quando non sono stati in grado di riconoscere la gravità del problema, o quando sostenevano l’inutilità delle mascherine, per non citare le recenti rivelazioni pubblicate dalla trasmissione REPORT.
Anche il modello della sanità italiana, tanto sbandierato e osannato come riferimento mondiale ha in realtà fallito. La salute dovrebbe, secondo la Costituzione essere garantita a tutti, ma la diversa erogazione nelle varie regioni fa in maniera che ognuna operi in modo autonomo, non garantendo spesso gli standard minimi di assistenza. La medicina sul territorio si é rivelata debolissima. Per poter costituire il primo vero filtro, assorbire l’impatto più precoce della Covid19 deve essere radicalmente riorganizzata sulla base di una visione in grado di prevedere quelle che potranno essere le esigenze dei prossimi decenni.
La strategia della politica é stata quella del “Watch and Wait” (osserva e attendi). Se in un primissimo tempo in cui si conosce poco, questo atteggiamento può essere accettabile, non lo é certamente dopo un lungo anno. Esempi dell’incompetenza ad affrontare le devastanti conseguenze sono soprattutto la gestione dei trasporti e delle scuole. I due ministeri competenti, e aggiungo anche quello alla Sanità si sono dimostrati impreparati, incapaci di programmazione a medio termine e soprattutto debolissimi dal punto di vista della comunicazione. Questa fragilità comunicativa ha consentito lo svilupparsi di una babele di voci, spesso contraddittorie, gestita da giornalisti e medici. Molti quotidiani si occupano della questione come veri e propri organi di partito e loro direttori e cronisti partecipano quotidianamente a svariati programmi televisivi facendo solo insolente propaganda. I medici, epidemiologi, virologi, rianimatori, spesso non sono da meno e molti di loro si comportano come star dello show business con tanto di agenti che programmano le loro apparizioni e regolano i loro compensi. Il risultato di questa debolezza é: più confusione e meno informazione.
Sarà quindi il vaccino la soluzione delle nostre paure? Per esserlo deve risultare efficace, sicuro e deve essere somministrato come minimo all’80% della popolazione. Se calcoliamo che l’80% degli italiani dovranno fare una prima dose e un richiamo ad un mese bisognerà pensare ad uno sforzo organizzativo enorme, in grado di somministrare 260 000 iniezioni di vaccino al giorno, compresi i sabati e le domeniche per un anno intero. E purtroppo non ci sono ancora sicurezze sulla copertura vaccinale delle eventuali mutazioni, sulla durata e la forza degli anticorpi, poiché ci sono già numerosi esempi di persone che hanno sviluppato una seconda infezione.
Come comportarci nel frattempo? Ci manteniamo sul Watch and Wait? Blocchiamo le frontiere e aspettiamo ansiosi il DPCM delle 23 che ci dica quale colore dominerà il mattino dopo?
Il vaccino é certamente un passo fondamentale che non dovrebbe nemmeno essere messo in discussione e ci può alleviare il percorso in attesa che si profilino farmaci specifici in grado di sconfiggere questo terribile virus.

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Effetti dell’uso della mascherina

La prestigiosa rivista americana JAMA (Journal of American Medical Association) ha pubblicato recentemente un limitato, ma significativo studio sulla sicurezza di chi indossa la mascherina. A 25 persone anziane, residenti in un ricovero è stata registrata la saturazione di ossigeno prima, durante e dopo aver indossato una maschera usa e getta a tre strati, quella chirurgica per intenderci. Il risultato è stato che la saturazione media di ossigeno non era diversa se si porta o si toglie la mascherina. La conclusione degli autori è chiara e semplice: indossare una maschera non è dannoso.
Paolo De Paolis, presidente della società dei chirurghi, che in Italia ogni giorno coprono naso e bocca mentre eseguono gli oltre 3 milioni di operazioni dice: “Noi chirurghi indossiamo la mascherina ogni giorno, in sala operatoria è necessaria per tutelare il paziente che si sottopone all’intervento. Oggi le mascherine chirurgiche possono diventare il più formidabile strumento contro la pandemia in corso, contro la diffusione del contagio. Le mascherine devono essere usate da tutti. Se le utilizziamo moltiplichiamo l’efficacia del distanziamento e riduciamo quindi i tempi di questo terribile momento”.
Eppure c’è chi sostiene che l’obbligo di indossare una mascherina rappresenti addirittura una violazione delle libertà personali. Negli Stati Uniti si sono formate associazioni che rivendicano autonomia e indipendenza nella scelta di proteggersi. Per esempio, l’agenzia Freedom to Breathe ha prodotto una specie di biglietto da visita che pretenderebbe di giustificare la scelta di chi lo possiede (ed eventualmente lo mostra a un’autorità) di non indossare la mascherina in luoghi pubblici.
Numerosi articoli, ad oggi, pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche del pianeta confermano che la maschera può essere disumanizzante e scomoda, può creare una sensazione di maggiore difficoltà quando si respira durante uno sforzo intenso, ma non è pericolosa. Non toglie ossigeno, non aumenta l’anidride carbonica, non influisce sul sistema immunitario.
“C’è chi ritiene che indossare una maschera incoraggi le persone a toccarsi il viso e ad allentare la propria vigilanza rinunciando ad altre precauzioni di sicurezza come il distanziamento fisico e il lavaggio delle mani” scrive Larry Chu, professore di Anestesiologia e direttore di un laboratorio specializzato di informatica e anestesia dell’università di Stanford in California. “Il nostro studio ha prodotto risultati che vanno nel senso opposto. Indossare una maschera ricorda alle persone di continuare a essere cauti. Con una maschera, in realtà ci si tocca meno il viso”.
Se vogliamo persuadere le persone ad indossare la maschera, bisogna usare gli strumenti che sono patrimonio di ogni buon dottore, umiltà, empatia e buon senso: l’umiltà di dire che non sappiamo, esattamente, quanto le maschere rallentano la diffusione del virus; l’empatia nel dire che ci rendiamo conto che le maschere tolgono molto di ciò che ci rende umani; il buon senso di sostenere fermamente che non sono pericolose. Poiché indossare la maschera è determinante per ridurre la diffusione virale, e non sarà necessario usarla per sempre, per favore, si indossi una maschera, soprattutto quando ci si trova negli spazi chiusi e ristretti.

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Mascherine e ipoacusia

L’influenza della perdita dell’udito sulla comunicazione medico-paziente è stato accentuata severamente con l’avvento del coronavirus. Ospedali, reparti di emergenza e unità di terapia intensiva ospitano sempre più adulti e anziani affetti da COVID-19. Molte delle persone che sono state vittime del virus soffrono di ipoacusia, non sono accompagnate da membri della famiglia, sono fragili, hanno altre malattie croniche e spesso non hanno possibilità di indossare la loro protesi acustica. Le stime del tasso di mortalità per infezione nella fascia di età più anziana (≥80 anni) varia dall’8% al 36% e i dati basati sul sesso suggeriscono che gli uomini più anziani generalmente se la cavano peggio delle donne anziane nella loro capacità di combattere il virus.
Siamo tutti consapevoli che un caposaldo della sicurezza dei pazienti e dell’assistenza sanitaria di qualità è una comunicazione efficace che consente ai pazienti di partecipare consapevolmente alle loro cure. Affinché la comunicazione sia efficace, deve avvenire in modo appropriato all’età, alla comprensione e alle capacità di comunicazione della persona. Inoltre, le informazioni mediche, quando fornite, devono essere complete, accurate, tempestive, inequivocabili e comprese dal paziente. È assolutamente comprovato che quando i pazienti possono ascoltare e comprendere bene l’operatore sanitario, è molto più probabile che siano collaborativi e seguano le raccomandazioni del medico per soddisfare in modo ottimale le loro esigenze.
Poiché anche i fattori sociali, psicologici e ambientali influenzano la comprensione del linguaggio, specialmente in ambito ospedaliero, gli anziani sono i più svantaggiati in quella che ora è la nuova normalità. Il ricovero ospedaliero rende la situazione di ascolto particolarmente stressante. A questo si aggiunga il fatto che le cure cliniche vengono spesso erogate in ambienti particolarmente rumorosi e che distraggono, pieni di segnali acustici di allarmi ma anche conversazioni ad alta voce tra altri pazienti e operatori sanitari.
Inoltre, la difficoltà di comprendere il linguaggio per le persone con ipoacusia è ora accentuata dalle maschere che si sono rese necessarie per ridurre al minimo la diffusione del virus. Queste maschere pongono due ovvi problemi per i pazienti con ipoacusia: per primo il paziente non può ottenere alcun aiuto dalla lettura delle labbra ed inoltre la voce del medico o infermiere è attenuata e distorta dal tessuto della mascherina.
In un recente studio si dimostra che tutti i tipi di maschera influiscono essenzialmente come un filtro acustico per le parole, attenuando soprattutto le alte frequenze, che sono le più importanti per la comprensione di chi ascolta. La perdita va da 3 a 4 decibel per la mascherina chirurgica fino a a 12 decibel per le maschere FFP3. Ciò significa che il degrado della qualità del parlato, in combinazione con il rumore della stanza e l’assenza di segnali visivi, rende il discorso quasi inintelligibile per molti pazienti con ipoacusia.
Alla luce di tali conclusioni si dimostra estremamente importante l’attenzione alle norme basilari di comunicazione vocale con chi é in difficoltà. Queste sono le raccomandazioni fondamentali da rispettare nella comunicazione con coloro che hanno difficoltà uditive:
Parla lentamente
Riduci i rumori di fondo e mantieni l’attenzione del paziente
Chiedi al paziente come preferisce comunicare
Verifica che il paziente indossi l’apparecchio acustico correttamente
Utilizza se necessario un sistema di amplificazione esterno
Ripeti quando pensi di non essere stato capito
Rispetta i turni della conversazione
Non enfatizzare o accentuare il tuo eloquio
Non parlare camminando o facendo altre cose.

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Ascolto attivo e relax comunicativo

Ci siamo mai chiesti davvero cosa significa ascoltare? Quale é la differenza tra sentire e ascoltare? Nell’uso quotidiano e colloquiale spesso i significati vengono interscambiati, molte volte impropriamente.
Le abilità comunicative di una persona non sono giudicate in base alle sue capacità uditive, ma alle sue modalità di ascolto. Non si tratta di un gioco di parole.
Vi è una differenza fondamentale tra sentire ed ascoltare.
Noi crediamo di usarle indifferentemente, in realtà se ci pensiamo bene non diremmo mai «Ieri ho udito dire che il prossimo week-end pioverà» come invece possiamo quasi sempre sostituire “udire” con “sentire”: ho udito una voce, ho sentito una voce. Quindi: “sentire” può essere usato al posto di “udire”, ma non viceversa, infatti “udire” e “sentire” hanno un significato profondamente diverso. Sentire è un fatto fisiologico involontario, sentiamo i suoni che raggiungono il nostro sistema uditivo e lo stimolano. L’ascolto è qualcosa di diverso e prevede la volontà di farlo. Limitandosi al “sentire” non sempre si comprende, è ascoltando che si raggiunge l’obiettivo.
La conclusione ovvia è che l’ascolto sia qualcosa di più complesso del semplice udire e l’ascolto “attivo”, cioè quello veramente utile, si raggiunge attivando la concentrazione, ponendo interesse.
L’ascolto è quindi il risultato della somma di diverse capacità, di cui quella uditiva è la principale, ma anche le altre non sono meno importanti. Quando chi ascolta non le attiva, fa la parte del sordo e…..”non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.
“All’inizio dell’estate molte mamme di ragazzini ipoacusici hanno richiesto dei controlli uditivi urgenti perché il figlio sembrava non sentire più bene come prima. In realtà nulla era cambiato per quanto riguardava le loro capacità uditive, ma era evidente che la mancata frequenza scolastica per il lockdown aveva, per così dire, disattivato le basi dell’ascolto attivo, ponendo il ragazzo in una condizione di relax comunicativo, con risposte meno pronte ed immediate anche a casa.” scrive il Prof. Sandro Burdo di Varese.
La ripresa della scuola é certamente in grado di risolvere questi comportamenti comunicativi impigriti. Rientrare in un mondo ricco di comunicazioni verbali, la ripresa dell’uso di molte parole e una immersione nei suoni della vecchia quotidianità é lo stimolo determinante ed adeguato per un efficace “ascolto attivo”.

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L’otite del nuotatore

Gli americani lo chiamano “Swimmers ear”. Da noi è conosciuta come “otite da piscina o otite del nuotatore”. Si manifesta soprattutto durante il periodo estivo e si tratta di una infezione della parte esterna dell’orecchio, un’infiammazione acuta della pelle del condotto uditivo esterno. Colpisce circa l’1% della popolazione con oltre 600.000 casi in un anno che si concentrano nei mesi caldi, quando le temperature sono alte e favoriscono la proliferazione dei microbi. L’entrata ed il ristagno di acqua nelle orecchie nel periodo più caldo dell’anno può far sviluppare questa patologia. Se oltre a questo ci troviamo in presenza di cerume nel canale uditivo esterno, questo, trattenendo l’umidità favorisce il processo infiammatorio. Di otite esterna soffrono gli adulti ma anche i bambini che producono cerume per lo più di consistenza molto morbida con azione protettiva sulla pelle. L’eccessiva pulizia e la rimozione di questo film protettivo espone più facilmente a contrarre questa patologia. Come possiamo prevenire questo fastidiosissimo e dolorosissimo evento, in grado di rovinare le nostre vacanze estive? La miglior prevenzione sarebbe quella di far controllare e detergere il condotto esterno all’inizio dell’estate in modo da essere certi che che non ci siano tappi o residui di cerume in grado di sostenere un eventuale processo infiammatorio. Dopo la frequentazione della piscina o dopo bagni al mare andrebbe osservata con attenzione e prudenza la norma di asciugare molto bene l’acqua che ristagna nel condotto uditivo esterno. Vale la pena di ribadire il concetto di non usare i bastoncini con il cotone che spesso rimuovono il film lipidico di protezione e creano dei microtraumi in grado di favorire la penetrazione dei germi presenti nella piscina o nelle acque del mare e che in un ambiente caldo-umido si sviluppano facilmente e provocano un forte dolore.
La società americana per le linee guida ha stilato un decalogo molto utile per chi soffre di otite esterna in modo da curata e prevenirla nei limiti del possibile.
La cura va effettuata con trattamenti locali spesso a base di gocce o creme. Queste possono contenere antibiotici, antisettici, steroidi o una combinazione. Gli antibiotici assunti per via orale non uccidono la maggior parte dei germi che causano l’otite acuta esterna e dovrebbero essere usati solo quando l’infezione si diffonde oltre il condotto uditivo, quando non sia possibile effettuare il trattamento locale o se il sistema immunitario è particolarmente debole. I consigli pratici della società americana di ORL sono:
Chiedi a qualcuno di mettere le gocce nel condotto uditivo al posto tuo. Sdraiati con l’orecchio interessato rivolto verso l’alto. Fai cadere alcune gocce nel condotto uditivo fino a riempirlo.
Rimani in questa posizione per 3-5 minuti (controlla il tempo!). È importante lasciarle un tempo sufficiente affinché penetrino in profondità. Può aiutare un leggero movimento avanti e indietro del padiglione per far giungere le gocce alla destinazione prevista. Un metodo alternativo consiste nel premere con lievi pressioni a stantuffo sul piccolo pezzo di cartilagine (trago) davanti all’orecchio. Quindi puoi quindi alzarti e riprendere le tue normali attività eliminando le eventuali gocce in eccesso. Tenere l’orecchio asciutto è generalmente una buona norma di prudenza, soprattutto quando si usano gli auricolari. Evita di pulire l’orecchio da solo poiché è molto sensibile e potresti danneggiare il condotto uditivo o persino il timpano. Se le gocce non penetrano facilmente nel condotto uditivo, potrebbe essere necessario far pulire il condotto uditivo dallo specialista o far posizionare una medicazione nel condotto uditivo per aiutare a far penetrare i farmaci nel condotto infiammato.

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musica per dormire meglio

Addormentarsi ascoltando la propria musica preferita è un’abitudine molto diffusa. Talvolta addirittura la musica viene usata come una vera e propria cura per combattere l’insonnia. Un piacevole brano musicale infatti favorisce il rilassamento psicologico, aiuta a distrarsi dai pensieri stressanti che ci affollano la mente e riesce a stimolare un atteggiamento positivo. La musica è spesso utilizzata per mascherare, oscurare e coprire i rumori di sottofondo ambientali, come quelli fastidiosi dei vicini di casa o quelli endogeni, ad esempio degli acufeni. L’utilizzo della musica come “distrattore” da fattori endogeni o ambientali, è considerato da sempre il motivo che spinge più di frequente ad utilizzarla quando ci si corica per andare a riposare. La musica si dimostra un efficace sistema per distrarre dai pensieri, e in particolare da quelli negativi, secondo quanto emerge anche da un recente articolo pubblicato dall’Università di Sheffield. Perché allora non introdurre una musica appropriata tra le terapie da utilizzare in caso di disturbi del sonno? È del resto limitativo considerare la musica unicamente come distrattore per coloro che sono disturbati da rumori interni o esterni. Ce lo insegnano i giovani che piú spesso ascoltano la musica prima di addormentarsi e certamente sono i meno disturbati da acufeni o rumori molesti. Lo fanno semplicemente perché qualche piacevole brano musicale favorisce l’addormentamento.
«È stato eseguito un ampio studio sull’uso quotidiano della musica per addormentarsi che ha rivelato effetti tra i piú vari, che vanno ben oltre il rilassamento prima di addormentarsi. Non c’è solo chi è mosso dalla necessità di ottenere un mascheramento uditivo, la musica viene usata anche per banale abitudine, per passione verso un genere o un autore, o per semplice distrazione mentale».
Non è quindi indispensabile ricorrere all’ascolto di playlist musicali “sedative” o “ipnotiche” per aiutare l’addormentamento. A questo scopo si erano studiate apposite tracce con ritmo relativamente basso a 60-80 battute al minuto, frequenze basse e variazioni musicali ridotte. In realtà è la musica auto-selezionata da ogni singolo individuo – di qualsiasi genere essa sia – ad essere più analgesica e ansiolitica rispetto a fonti sconosciute a chi le ascolta. In più, essere convinti che la musica ascoltata favorisca l’addormentamento può funzionare effettivamente per prendere sonno, in virtù di una combinazione benefica tra l’uso terapeutico della musica, le proprie preferenze musicali e l’effetto placebo.
La “canzone del sonno perfetta”, é quindi qualsiasi melodia, purché sia piacevole, conosciuta, apprezzata, frutto dell’auto-selezione di ciascun individuo. Le preferenze per un genere musicale, per un ritmo, per determinate frequenze, ottengono effetti completamente differenti sui livelli di neuro-eccitazione e sull’attività neurale, riflettendo la complessa relazione tra le proprietà della musica e gli effetti sul cervello e sul corpo. In che modo questo si realizzi, da un punto di vista biologico, perché sia efficace su ansia ed eccitazione, solo il dosaggio di biomarcatori come cortisolo o ossitocina potranno esplorarlo in futuro, rivelando i potenziali meccanismi biologici che sono alla base del sonno musicale.
Ecco quindi la musica come una eccellente soluzione che ci aiuta a gestire le conseguenze economiche, fisiche e psicologiche conseguenti alla perdita del sonno. E se molto spesso i farmaci si rivelano inefficaci o possono presentare effetti collaterali, la musica non ha controindicazioni, è a basso costo ed è universale.

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ALEX : un semplice prelievo di sangue, una risposta completa ai dubbi di allergia

I test per le allergie sono il primo passo da compiere per diagnosticare un’allergia alimentare, respiratoria o cutanea ma spetta poi al medico fare una diagnosi ufficiale.
ALEX (Allergy Explorer) è il test allergologico che permette, con un unico prelievo di sangue, la misurazione di 282 allergeni contemporaneamente, di cui 125 sono singole proteine; in questo modo si ottiene in modo semplice e rapido, il quadro completo del profilo allergologico del paziente potenzialmente allergico. ALEX offre un quadro completo della situazione del paziente, IgE totali comprese, rendendo più efficiente questo approccio, altrimenti frammentato. Il test ALEX verifica la presenza di anticorpi IgE specifici per tutte le principali fonti di allergeni. Che si tratti di polline, acari, cibo, pelo/forfora di animali, veleni di insetti, muffe o lattice, ALEX le comprende tutte. E’ anche dotato di molti allergeni molecolari, che consentono una comprensione completa delle reazioni crociate allergiche e la valutazione del rischio di allergie alimentari.
«Una maggiore precisione diagnostica contribuisce a rendere più efficiente la fase della cura, che diviene sempre più precisa e, soprattutto, personalizzata. I test classici, che utilizzano estratti allergenici, sono certamente utili per identificare le sorgenti allergeniche, ma è solo attraverso un approccio diagnostico molecolare aggiuntivo, che è quello proprio di Alex test, che è possibile avere tutte le informazioni utili per raggiungere una decisione terapeutica ottimale».
«L’analisi spazia su tutti gli allergeni classici, che vanno da quelli propri di acari e polveri, al lattice, al cibo animale e a quello vegetale, a insetti e veleni, a microorganismi, pollini e a epitelio e forfora.».
Fatte queste premesse, il test allergometrico ALEX fa parte dei cosiddetti test di allergologia molecolare, ovvero di esami diagnostici che, attraverso un prelievo di sangue, valutano il livello di sensibilizzazione verso singole proteine allergeniche; con questo termine si intendono le singole proteine presenti dentro ciascuna fonte allergenica. Ciò è rilevante per poter comprendere meglio (sempre attraverso l’interpretazione di uno specialista) quadri di allergie complicate, in quanto conoscere se si è sensibilizzati ad una proteina piuttosto che un’altra può essere d’aiuto per distinguere allergie “genuine” da quelle date da fenomeni di cross-reazione e spesso non rilevanti dal punto di vista clinico.

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SARS-CoV-2 toglie la sensibilità per odori e sapori

Ormai è accertato: uno dei primi effetti del nuovo virus SARS-CoV—2 é la diminuzione fino alla totale perdita del gusto e dell’olfatto. Ció é confermato ormai da diversi studi clinici internazionali. Un gruppo di medici del reparto di otorinolaringoiatria di Treviso, in collaborazione col Dipartimento di microbiologia ha raccolto le interviste di oltre 200 pazienti risultati positivi al nuovo coronavirus e sottoposti a isolamento domiciliare.
“Il risultato è stato chiarissimo: – dice il Dr. Paolo Boscolo Rizzo che ha condotto lo studio – la frequenza di chi lamenta un deficit del senso del gusto e dell’olfatto durante la malattia è addirittura del 60%”. In linea con la recentissima letteratura sull’argomento, questi dati confermano che due pazienti su tre dichiarano di non distinguere più correttamente gli odori e sapori durante il decorso della malattia. Tali sintomi sarebbero tra l’altro molto iniziali, addirittura presenti prima ancora di altri più allarmanti come la febbre, spesso elevata, la tosse, il mal di gola, per non parlare delle difficoltà respiratorie. Di fatto quindi, la perdita temporanea dei due sensi si configura come un classico “sintomo sentinella”, quello cioè che compare già nella fase asintomatica e deve mettere in guardia il paziente.
“Nel 15% dei casi il paziente ha accusato un sensibile deficit dell’olfatto senza sviluppare altri sintomi importanti o come primissimo sintomo che precede l’esordio della COVID-19” è la conclusione a cui sono arrivati i ricercatori trevigiani. È una fetta di popolazione significativa, e non è quindi da sottovalutare questo precoce segno di malattia. In parecchi casi, infatti, una alterazione dell’olfatto non viene considerata “grave” e il disturbo non spinge il paziente a ricorrere a particolari cure mediche: non ha la febbre quindi continua a lavorare e andare a fare la spesa. Inconsapevolmente però, veicola i virus ed essendo contagioso rischia di diffondere ulteriormente l’epidemia.
“È altamente probabile che chi avverte un improvviso deficit olfattivo e gustativo -afferma il dottor Boscolo Rizzo-, sia stato contagiato dal nuovo coronavirus. La prima cosa che deve fare, dunque, è auto isolarsi e richiedere eventualmente, di essere sottoposto al tampone. In questo modo si potrebbero ridurre in modo significativo ulteriori contagi”.

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La paura del nuovo virus

Lo stato d’animo piú diffuso, che ci é piombato addosso inaspettatamente, é la paura. In queste settimane tutti la sperimentiamo anche se con intensità diverse.Lo scoppio di un allarme ha la finalità di metterci in guardia, ma il risultato é che ci infonde un profondo senso di insicurezza, timore, talvolta panico. Paura di ammalarsi, paura di avvicinarsi ad altre persone che potrebbero essere veicoli del coronavirus, paura del crollo dell’economia planetaria nei prossimi mesi. Il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhamon Ghebreyesus ha chiarito a piú riprese che le uniche misure di quarantena e lockdown ( protocolli di blocco di tutte le attivitá in emergenza) potrebbero essere insufficienti.
In questi giorni di riflessione dovremmo tutti sforzarci di sperimentare esercizi mentali che ci possano aiutare a ridurre e allontanare in parte queste paure.
Mi permetto di suggerirne uno di sicura efficacia: facciamo elenchi di cose, fatti, pensieri. Un lungo elenco, per esempio potrebbe confrontare gli elementi di sicurezza e contrapporli alle incertezze riguardo al virus. Metterei tra le incertezze la durata della sua infezione, il tempo che passerà prima di vedere scendere il numero di nuovi malati. Quanto dura con precisione il periodo di incubazione? Perché nel nord Italia i casi gravi sono tanto numerosi? Rallenterà con l’arrivo del caldo o continuerà a diffondersi con la virulenza attuale? L’elenco potrebbe continuare, ma affianco mi sembra doveroso fare l’elenco delle certezze, forse meno numerose, ma molto più importanti.
Conosciamo con certezza la forma, le dimensioni, addirittura la sequenza genomica del nuovo virus, ma sappiamo anche bene come funziona il nostro sistema immunitario, cosa é un anticorpo e come lo possiamo dosare con un prelievo di sangue. Sappiamo che gli anticorpi, se circolano nel nostro corpo in quantità sufficiente, ci proteggono dalle ricadute. Un altro dato da inserire nell’elenco delle certezze é che molte persone inconsapevolmente hanno “incrociato” il virus e non ne sono stati infettati o hanno presentato sintomi talmente lievi da non essere stati diagnosticati come affetti da COVID-19. Sappiamo he il contatto però ha consentito loro di produrre gli specifici anticorpi, proprio come per i convalescenti, e sono quindi immuni a una seconda infezione per un discreto periodo di tempo, forse per sempre se il virus non muta. Il tanto discusso tampone ci puó dare un’istantanea dell’infezione attuale, domani potrebbe dare il risultato opposto, mentre il dosaggio degli anticorpi ci fornisce certezze sulla storia immunitaria del paziente e sul suo grado di protezione dalle ricadute. Ecco che il test sierologico che dosa la presenza di anticorpi si confermerebbe molto piú utile del tampone per identificare il (verosimilmente enorme) numero di persone già naturalmente protette dalla reinfezione per favorirne la reimmissione precoce nei vari settori lavorativi. Unicamente in questa maniera potremmo evitare il lockdown totale e concentrarci sulla protezione delle categorie a maggiore rischio.

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ALEX il nuovo test allergico molecolare.

La primavera, tanto attesa da tutti, per un allergico può significare l’inizio di un periodo di disagi e sofferenza. Ogni anno, con cronometrica regolarità iniziano le giornate con starnuti, lacrimazione, difficoltà di respiro. Confrontare la presenza di questi sintomi con il calendario pollinico provinciale può confermare la sensazione di essere allergici ad una determinata erba o albero. Non sempre però è tutto così semplice e molto spesso sintomi allergici di tipo respiratorio derivano da assunzione di alimenti o altre situazioni. Finora si é effettuato un test allergico molto diffuso (prick test) che consente di verificare sulla nostra pelle la reazione cutanea ad alcuni allergeni che corrispondono a quel gruppo di sostanze che più frequentemente causano reazioni di questo tipo. Ma perché non cercare nel sangue gli anticorpi allergici specifici. Di recente è stato messo in pratica un semplice esame, che con un prelievo di sangue consente di verificare non solo con certezza l’allergia a oltre 282 allergeni ma anche di fare l’analisi di tutte le allergie crociate tra un allergene e l’altro. Si tratta di misurare il grado di sensibilizzazione allergica a un elevatissimo numero di componenti contemporaneamente con un questo nuovo test molecolare. ALEX (Allergy Explorer) offre il quadro ad oggi più completo della situazione del paziente, rendendo più efficace ogni trattamento altrimenti frammentato. Infatti è in grado di verificare la presenza di anticorpi IgE specifici per tutte le principali fonti di allergeni. Che si tratti di polline, acari, cibo, pelo o forfora di animali, veleno di insetti, muffe o lattice, Alex le comprende tutte. Inoltre effettua una indagine molecolare che consente una comprensione completa delle reazioni crociate allergiche e la valutazione del rischio di allergie alimentari. Infatti i test cutanei di primo livello in molti casi non sono in grado di identificare quale sia l’allergene principale responsabile della reazione allergica, ciò si verifica per via del fenomeno della multi sensibilizzazione: molti pazienti hanno prove allergometriche cutanee positive per molti allergeni e si pone il problema di comprendere quali siano clinicamente rilevanti, ovvero correlati alla presenza di sintomi, e quali siano invece trascurabili. Il test Alex è indispensabile particolarmente nei casi dubbi o complicati e si effettua sul siero del paziente misurando i livelli ematici delle immunoglobuline che sono gli anticorpi specifici coinvolti nella reazione allergica. Il test Alex rappresenta quindi un cambiamento radicale nella diagnostica delle allergie perché con un unico prelievo di sangue abbiamo oggi il più ampio risultato possibile in termini di componenti allergiche studiate. In un’ottica di medicina di precisione questo test è facilmente eseguibile in ambito allergologico anche in ambulatorio otorinolaringoiatrico, ed è preciso nell’individuare la vera causa della reazione allergica consentendo di selezionare la terapia più appropriata per ciascun paziente. Questo test si rivela indispensabile anche per quanto riguarda il rapporto tra allergia ai pollini e alimenti, considerato che determinate proteine sono contenute in diverse fonti del mondo vegetale. Alcune proteine infatti, se ingerite, sono responsabile dello scatenarsi di sintomi tipici delle allergie alimentari, mentre altre determinano la comparsa di sintomi lievi. Anche in questo caso, sapere a quali proteine il paziente è allergico ci permette di stratificare il rischio della gravità dell’allergia e fornire al paziente indicazioni più precise in termini di consumi alimentari, suggerendo quali alimenti può mangiare senza problemi e a quali invece deve prestare attenzione perché la loro digestione potrebbe determinare una reazione allergica e prevederne la gravità.

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DORMIRE BENE SENZA FARMACI

Noi tutti siamo consapevoli che il sonno è fondamentale per la nostra salute e il nostro benessere.
Dal 20% al 30% delle persone apparentemente senza una patologia specifica che lo giustifichi, afferma di dormire male. Molti dicono di avere difficoltà ad addormentarsi, altri a mantenere il sonno, altri ancora si svegliano troppo presto. Moltissimi poi, non si sentono riposati nonostante trascorrano un’intera notte apparentemente addormentati nel loro letto.
Per una persona su 10, l’insonnia è addirittura un problema cronico, che si ripete notte dopo notte a volte per anni. Non c’è da stupirsi, quindi che siano in tanti a fare ricorso ai farmaci per superare questo problema, troppo spesso anche auto-prescrivendosi prodotti di varia natura. Secondo l’American Academy of Sleep Medicine, peró, è possibile curare molte forme di insonnia senza usare medicine.
Gli esperti del sonno, concordano nell’affermare che nella maggior parte dei casi esistono alternative migliori, più sicure e più durature dei farmaci, in grado di trattare la maggior parte dei problemi di sonno. Si tratta di norme comportamentali che prevedono piccoli ma sostanziali cambiamenti di alcune abitudini, che spesso sono alla base dell’insorgenza e del perdurare del problema.
Queste alternative sono particolarmente utili per le persone anziane che metabolizzano le medicine più lentamente, hanno maggiori probabilità di avere cause curabili della loro insonnia e sono più suscettibili agli effetti collaterali negativi delle cure in genere.
Gli obiettivi che ci si pone con il trattamento sono principalmente quelli volti a migliorare la qualità del sonno (aumentare la durata, la continuità e l’efficienza del sonno), ridurre il disagio emotivo, cognitivo e sociale che consegue all’insonnia, ripristinare il senso di controllo del proprio sonno, eliminare l’abuso e la dipendenza dai farmaci ipnoinduttori (sonniferi). Tuttavia criminalizzarne l’uso é certamente sbagliato, poiché in alcune situazioni è invece determinante a interrompere una severa e invalidante insonnia.
La genetica svolge un ruolo fondamentale, influenzando significativamente il ciclo del sonno.
Tra i disturbi, quelli che vengono chiamati “disturbi di fase del sonno” o disturbi del ritmo circadiano, sono i più subdoli; va ricordata la sindrome della fase del sonno ritardata (DSPS, Delayed Sleep Phase Syndrome), un disturbo cronico dei ritmi del sonno, dei picchi di attenzione, della temperatura corporea, dei cicli ormonali e di altri ritmi legati a lavoro e relazioni sociali. Chi ne è affetto tende ad addormentarsi per lo piú dopo la mezzanotte e mostra ovviamente seria difficoltà a svegliarsi la mattina. Non dimentichiamo che il sonno fa parte dei comportamenti quotidiani che si possono apprendere e migliorare. Dovremmo iniziare praticando una buona igiene del sonno, evitare o ridurre al minimo l’uso di caffeina, sigarette, stimolanti e soprattutto alcool, fare due passi durante il giorno.
Tanto maggiore si presenta la difficoltà a prendere sonno, tanto piú importante é la routine da mettere in atto prima di andare a dormire.
I “rituali del sonno” sono quelle attività che mettiamo in atto per predisporci mentalmente al riposo e sono composti fondamentalmente da azioni lente e rilassanti. Le scelte sono molto personali, ma in comune hanno la finalità di predisporci al rilassamento. Non importa cosa scegliamo tra la lettura di un libro, un bagno caldo, un raccoglimento in meditazione, se ascoltiamo musica o facciamo stretching, importante é riuscire a influire in poco tempo sulla nostra mente. “Per prevenire i disturbi del sonno – consiglia lo specialista – è fondamentale guardare agli stili di vita e a tutte quelle pratiche scorrette che mettiamo in atto nella seconda parte della giornata o poco prima di andare a letto, da un’alimentazione ricca di cibi che stimolano il sistema nervoso o che ostacolano la digestione come i carboidrati raffinati (baguette, biscotti, pane bianco, pasta non integrale, riso non integrale), al consumo di tè, caffè cioccolato, glutammato monosodico, al guardare la tv prima di dormire fino all’uso eccessivo di pc, smartphone e tablet sotto le coperte”.
“Un nutriente che potrebbe aiutarci a dormire meglio è il magnesio che aiuta le cellule ad adattarsi all’alternarsi del giorno e della notte – sostiene il dottor Vincenzo Tullo, neurologo responsabile dell’ambulatorio sulle cefalee di Humanitas -. Il magnesio è presente in diversi alimenti tra cui mandorle, noci e pistacchi, legumi come fagioli e lenticchie, ma anche zucchine, spinaci, sardine e polpo. Oltre che con l’alimentazione il magnesio può essere assunto con degli integratori, da assumere però sempre dietro prescrizione medica. Altre sostanze naturali indicate nel trattamento dell’insonnia sono poi la melatonina, i fiori di bach, la valeriana, l’escolzia, il luppolo, la melissa, la passiflora, il biancospino, il tiglio”.

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Direct-to-Consumer Hearing Devices

Da qualche tempo sono stati messi in vendita apparecchi acustici per deboli di udito a bassissimo prezzo, acquistabili direttamente in rete. Queste apparecchiature vengono pubblicizzate e offerte a prezzi estremamente concorrenziali rispetto a quelle tradizionali che, per essere personalizzate, vengono adattate da tecnici audioprotesisti laureati e riconosciuti dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN).
Va precisato che la maggior parte delle persone che trarrebbe beneficio dagli apparecchi acustici non li prova nemmeno. La percentuale delle persone con difficoltà uditive che fa ricorso agli apparecchi acustici è infatti molto bassa anche nei paesi in cui tali ausili sono disponibili gratuitamente (ad es. Regno Unito e Norvegia). In Gran Bretagna, meno del 25% degli adulti con perdita uditiva di medio grado utilizza un apparecchio acustico. Mentre, tra coloro che lo hanno provato, la maggior parte ha poi atteso in media circa 10 anni prima di acquistarlo.
I dispositivi che possono essere utilizzati direttamente al momento dell’acquisto (o dopo una semplice messa a punto a casa) senza la consulenza di un laureato tecnico audioprotesista sono chiamati: apparecchi acustici direct-to-consumer (DTC). È stato ipotizzato che questi dispositivi possano aumentare il ricorso a tali metodi di amplificazione, perché sono decisamente economici e sembrano consentire a molte persone di autogestire la propria perdita uditiva.
Un rapporto del Council of Advisers on Science and Technology (PCAST), organo di consulenza scientifica e tecnologica del Presidente degli Stati Uniti ha raccomandato di sostenere e migliorare l’accesso all’assistenza sanitaria per i deboli di udito, favorendo questa nuova categoria di apparecchi acustici: i DTC per l’appunto. Come detto, si tratta di apparecchi elettronici facilmente reperibili in rete per migliorare la capacità uditiva, che possono essere ordinati e indossati, senza la necessità di consultare un operatore sanitario. Sebbene i dispositivi DTC siano disponibili da lungo tempo, il rapporto PCAST ​​ha aperto le porte a ulteriori sviluppi del loro mercato.
Ma conviene acquistare dispositivi di questo genere? Si tratta davvero di un risparmio consapevole?
Un importante studio si é recentemente posto questa domanda ed ha valutato i 28 dispositivi DTC più acquistati nel Regno Unito su Internet confrontandoli con gli apparecchi acustici tradizionali e riconosciuti dal SSN più acquistati nel 2018. “Sono state paragonate: caratteristiche, prestazioni elettroacustiche, capacità di ottenere il guadagno prescritto e non ultimo l’aspetto estetico.”
Questo studio é giunto alla conclusione che: “nella maggior parte dei dei casi i DTC si rivelano molto economici, con prezzi che variavano da 7 a 355 sterline. Alcuni sono corredati anche di funzionalità avanzate, tra cui Bluetooth per il collegamento con il telefono cellulare o il televisore, ma anche sistemi di riduzione del rumore e microfono direzionale. Va subito detto che alcuni DTC sono stati consegnati già guasti ed altri avevano manuali d’uso solo in cinese. Sulla maggior parte dei dispositivi il controllo del volume non era regolabile o, se lo era, si dimostrava estremamente impreciso e inaffidabile, altri poi avevano batterie ricaricabili con autonomia di meno di mezz’ora, quindi inutilizzabili.”
“Le misurazioni con il cosiddetto “orecchio elettronico” hanno rivelato che molti dispositivi DTC erano dotati di tecnologie obsolete, molto approssimativi se non addirittura grossolani. Solamente i DTC più costosi offrivano un adattamento confrontabile al livello ottimale.
Sebbene i DTC differissero ampiamente tra loro in termini di qualità, la maggior parte ha funzionato significativamente peggio degli apparecchi acustici tradizionalmente considerati dal SSN in termini di prestazioni elettroacustiche e aspetto estetico. “I DTC con le migliori prestazioni erano quelli più costosi; in conclusione: con i DTC, ottieni ciò per cui paghi.”
Nessun dispositivo DTC può pertanto, allo stato attuale, eguagliare un apparecchio acustico tradizionale, né in termini di discrezione estetica e ancora meno in prestazioni acustiche. Pertanto, i produttori di DTC dovranno affinare le loro tecnologie se vogliono produrre dispositivi in ​​grado di competere con gli apparecchi acustici disponibili finora e adattati da tecnici laureati, sia in termini di prestazioni che di aspetto.”
La società statunitense di apparecchiature elettroniche BOSE, leader nel suo settore, ha recentemente riferito di aver ottenuto l’approvazione dalla Food and Drug Administration (FDA) per immettere sul mercato un dispositivo DTC. La competenza tecnica, il know-how ergonomico e la diffusione di BOSE faranno molto probabilmente da battistrada in questo nuovo mercato facendo sí che loro e i loro concorrenti, tra cui Apple, Google e Samsung, possano produrre dispositivi DTC che avranno un impatto significativo sul panorama dell’assistenza sanitaria ai problemi dell’udito.

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Mi sta scoppiando la testa!

“C’è questo improvviso crescendo di rumore elettrico, poi un’esplosione profonda e devastante, e un lampo luminoso nella mia visione, come se qualcuno avesse acceso un riflettore davanti al mio viso.”
Vivere con la “sindrome della testa che esplode” é più frequente di quanto si pensi e genera una sensazione profondamente spiacevole e talvolta terrificante. Alcuni la descrivono come una bomba che esplode vicino alla loro testa mentre si addormentano. In alcuni casi si verifica solo una volta nella vita, per altri, peró si ripete più volte ogni notte.
Il medico Silas Weir Mitchell ha affrontato per la prima volta lo studio del disturbo nel 1876, descrivendo due uomini che soffrivano di quelle che chiamava “scariche sensoriali” – gli stessi uomini dicevano di udire “campane forti” o “colpi di pistola” che li svegliavano nel sonno. Nonostante il suo nome provocatorio e intrigante, ci sono state relativamente poche ricerche sul disturbo. C’è ora una teoria, tuttavia, secondo cui questa condizione e i relativi disturbi del sonno possono aiutare a spiegare fenomeni culturali apparentemente non correlati, in particolare le origini dei rapimenti alieni, le teorie della cospirazione del governo e i demoni soprannaturali.
Ma cosa sappiamo di questa esperienza notturna? In uno studio pubblicato recentemente, a 211 studenti è stato chiesto se avessero mai sperimentato una tale condizione: ebbene il 18% ha dichiarato di sì. Tuttavia, questo campione probabilmente non riflette la sua reale prevalenza poiché gli studenti sono inclini alla mancanza di sonno, un fattore noto per aumentare il rischio di sperimentare questo fastidiosissimo fenomeno.
“Se presenti qualche tipo di interruzione del sonno come avviene nell’insonnia o in caso di jetlag, potresti avere maggiori probabilità di sperimentare questa condizione”, afferma Brian Sharpless, assistente professore di psicologia alla Washington State University, che ha guidato lo studio. “Lo stress e la tensione emotiva sono anch’essi associati a un aumento degli episodi della sindrome.”
Le teorie sulle cause sono diverse, tra essi disturbi dell’orecchio e anche neurologici come crisi epilettiche parziali. Ma la teoria più convincente viene dagli studi in cui le persone con questa patologia sono stati sottoposti a monitoraggio della loro attività cerebrale nel corso della notte. Si tratta di un esame alla portata di chiunque, effettuabile facilmente nel proprio letto. Questi studi rilevano in questi pazienti un improvviso aumento di attività neurale nel cervello che coincide con l’esplosione segnalata.
“Normalmente, quando andiamo a dormire, il nostro cervello di solito si spegne poco a poco”, dice il professor Sharpless. In alcune persone peró, sembra esserci un ritardo nello spegnimento di alcune aree del cervello.
“È come se le cellule nervose sparassero tutte assieme”, dice, il che si traduce nella sensazione di un’esplosione nella testa.
Per questa sindrome non esiste un trattamento risolutivo, gli antidepressivi riducono il verificarsi degli eventi, così come le tecniche di rilassamento e di riduzione dello stress. “Puoi aiutare molto semplicemente la rassicurazione che non si tratta di pazzia o di una manifestazione di tumore o altri disturbi cerebrali”, afferma Sharpless.
Ma cosa c’entra questo con i rapimenti alieni e gli esseri soprannaturali? La sindrome della testa che esplode è spesso collegata alla paralisi del sonno – le persone che sperimentano l’una presentano spesso l’altra. La paralisi del sonno è un altro inquietante disturbo che compare nella notte, per cui ti senti perfettamente sveglio e cosciente, ma assolutamente incapace di muovere una qualunque parte del corpo. Sharpless pensa che questa due situazioni potrebbero spiegare diversi eventi apparentemente soprannaturali.
È stato pubblicato il caso in cui Haruko Matsuda, una giovane donna giapponese, che soffre di paralisi del sonno, descrisse una tipica notte a Sharpless: “Ho sentito qualcosa spingere sul mio petto, quindi ho aperto gli occhi. Ho sentito qualcuno urlare … e sembrava che venisse proprio accanto al mio orecchio “, ha detto. “Pensavo fosse un fantasma o qualcosa del genere. Stava urlando “Ti ucciderò!”. Non potevo muovermi ed ero così spaventata … ”
Nel Medioevo, i sintomi di Matsuda avrebbero potuto essere attribuiti a demoni che si sarebbero seduti sul petto delle persone e li avrebbero sedotti per avere rapporti sessuali. Più recentemente, le persone apparentemente congelate e abbagliate durante la notte hanno incolpato l’esperienza al rapimento da parte degli alieni.
Il Dr. Nielsen, uno psichiatra statunitense, afferma di aver vissuto personalmente episodi di esplosione della sindrome della testa con frequenza quasi mensile da quando aveva 10 anni, e ha sperimentato due volte la paralisi del sonno, ma la sua mente scientifica ha razionalizzato l’esperienza e contribuito a prevenire qualsiasi ansia su episodi del genere. “Ho sempre avuto la tendenza ad analizzare le cose scientificamente, quindi anche da adolescente l’ho spiegato a me stesso come “qualcosa di elettrico sta accadendo nel mio cervello”.

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a colpo d’occhio

“Passi d’Argento (PdA) è un sistema di sorveglianza a rilevanza nazionale dedicato alla popolazione con oltre 65 anni, che fornisce informazioni sulle condizioni di salute, abitudini e stili di vita e sui bisogni di cura e assistenza specifici della popolazione anziana, ma con uno sguardo nuovo al fenomeno dell’invecchiamento, a partire dalla definizione di “invecchiamento attivo” voluta dall’OMS. Infatti con Passi d’Argento si “misura” anche il contributo che gli anziani offrono alla società, fornendo sostegno all’interno del proprio contesto familiare e della comunità, per i quali sono centrali aspetti come la partecipazione e il benessere psicologico e sociale della persona” è quello che si legge sul sito dell’osservatorio epidemiologico del Ministero della Sanità. Questo sistema si propone di monitorare l’incidenza di tumori, la frequenza di situazioni di disagio psichico,l’attivitá fisica, le abitudini alimentari e tanti altri aspetti per poter avere un quadro completo e dettagliato della situazione degli anziani sul nostro territorio nazionale. In uno studio da poco pubblicato sui dati del 2016, 2017 e 2018, risulta che 1 persona su 4, con 65 anni o più, ha almeno un problema di tipo sensoriale fra cali di vista, udito o difficoltà di masticazione (che non si risolve neppure con il ricorso ad ausili, come occhiali, apparecchio acustico o dentiera).
I problemi di udito sono stati indagati attraverso una semplice domanda che non fa riferimento ad alcuna diagnosi medica ma semplicemente si basa sulla percezione del singolo di avere un deficit di udito tale da rendere difficoltoso fare quattro chiacchiere con qualcuno: «Sente bene da poter fare quattro chiacchiere con qualcuno?». Alla domanda si può rispondere in tre diversi modi possibili: “si, abbastanza”, “si, solo se indosso l’apparecchio acustico”, “no, non sento bene”.

Nei tre anni 2016-2018, fra gli ultra 65enni residenti in Italia il 14% riferisce un problema di udito (non risolto o non risolvibile con il ricorso all’apparecchio acustico). Questa quota cresce con l’età (a 65-74 anni è del 7% ma sale al 22% dopo gli 85 anni) e non mostra differenze di genere. Il gradiente sociale è ampio e significativo e la quota di persone con problemi di udito è maggiore fra le persone con bassa istruzione (19% contro il 9% delle persone con alta istruzione) e fra quelle con molte difficoltà economiche (22% rispetto al 10% fra chi non ne riferisce). Anche il gradiente geografico da Nord a Sud del Paese è significativo: nelle Regioni meridionali c’è una quota quasi 2 volte più alta di persone con problemi dell’udito, rispetto a quanto si osserva fra i residenti nel Nord Italia.
La nostra Provincia, nello schema pubblicato dal Ministero si comporta molto bene essendo al di sopra della media nazionale per tutte le voci, quindi gli anziani nella provincia di Bolzano presentano meno frequentemente problemi di udito, vista o masticazione rispetto ai loro coetanei nel resto dell’Italia.
Delle tre abilità, appunto vista, masticazione e udito, é quest’ultima la più importante. Infatti tra le persone con un problema di udito è più alta la prevalenza di coloro che restano socialmente isolate e riferiscono che in una settimana normale non incontrano né parlano con qualcuno (44% contro il 19% tra le persone con udito normale); è più alta la prevalenza di sintomi depressivi (27% invece del 13%) ed è più alta la quota anche di chi è caduto a terra nei 30 giorni precedenti l’intervista (13% rispetto al 9%).
Purtroppo solamente un 6% degli anziani intervistati ricorre ad un apparecchio acustico per risolvere il suo deficit uditivo.

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NOISERADAR

Tempi duri per chi trucca lo scarico dell’auto o della moto. Motori elaborati e marmitte non a norma possono oggi venire rilevate anche nel traffico piú caotico. In Francia è stato messo a punto un sistema in grado di misurare il rumore prodotto dai veicoli nelle strade di Parigi e multare coloro che sforano i limiti. Si tratta di veri e propri autovelox del rumore, che, installati nei punti nevralgici del traffico possono misurare istantaneamente il livello di inquinamento di ciascun veicolo che passi nelle loro vicinanze. Se tale livello supera la soglia consentita, rilevano la targa e inviano i dati alla centrale piú vicina per la contravvenzione. A Villeneuve-le-roi, dove si sono svolte le prime sperimentazioni nel traffico, Didier Gonzales – sindaco della cittadina – sostiene, “Il rumore è la rovina della vita moderna e un grave problema di salute. Fa male alle persone proprio come fa il fumo passivo”.
Tecnicamente, individuare nel caos di una piazza cittadina il rumore di una singola marmitta é reso possibile da un algoritmo che raccoglie i dati da quattro microfoni che sono in grado di “triangolare il rumore” e individuarne con certezza la provenienza rilevando l’intensità dieci volte al secondo. Un computer elabora i dati che si ottengono descrivendo una scia di puntini luminosi che corrisponde al percorso della sorgente rumorosa. A questo punto é un gioco da ragazzi applicare lo stesso sistema dell’autovelox e scattare una fotografia per identificare il mezzo troppo rumoroso.
“Con questo strumento non é possibile contestare la multa”, conclude il sindaco Gonzales.
A Parigi sono stati installati 40 di questi radar antirumore a titolo sperimentale e 17 sono stati fissati sui pali della luce in zone dove si radunano i motociclisti, che sono spesso considerati i piú fracassoni. Gli amanti dello “scarico libero” o dei motori rumorosi potrebbero quindi tra poco ritrovarsi nei guai. Girano infatti indiscrezioni che preannunciano che prossimamente questi radar antirumore verranno installati anche sulle nostre strade.

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Stai sbadigliando? Un micro-sleep puó uccidere

Quasi la metà degli autisti di sesso maschile ammette di aver sperimentato almeno un episodio di micro-sonno al volante. Ma chi ne soffre?
Si tratta di numeri spaventosi, secondo indagini di coloro che si occupano di sicurezza stradale.
Dei 1.000 autisti intervistati, tra camionisti e autisti per consegne a domicilio, il 45% degli uomini ha ammesso di averne avuto almeno una esperienza durante la guida, così come il 22% delle donne.
Ma di cosa parliamo?
Il micro-sonno (micro-sleep) per gli autori inglesi, è un episodio di sonno leggero della durata di 5-10 secondi. Il cervello va a dormire involontariamente e ciò è più probabile che accada durante una riunione o una guida monotona o comunque quando non é richiesta una particolare attenzione. Il guidatore entra improvvisamente e inconsapevolmente nella fase REM (quella dei sogni, per capirci), poi si sveglia all’improvviso, spesso con un forte sussulto alla testa.
“Le tue palpebre iniziano a cadere e inizi a perdere il contatto con la realtà”, afferma il professor Jim Horne, direttore del Sleep Research Center dell’Università di Loughborough. ” dormi per qualche secondo, poi ti svegli, il piú delle volte con una scossa del capo.”
Questo improvviso colpo al risveglio è il modo di manifestarsi comunemente di un micro-sonno in quanto il cervello non ricorda tali brevi pisolini.
“Il sonno deve durare oltre un minuto o due affinché il tuo cervello lo ricordi”, afferma il professor Horne, che ha studiato la stanchezza negli autisti per 10 anni. “Con il micro-sonno, la durata dello stato di incoscienza é troppo breve e ti resta solo la sensazione di non sapere se stai arrivando o partendo.”
È causato, ovviamente, dalla fatica e dalla mancanza di un sonno ristoratore. “Se gli episodi non vengono riconosciuti, essi diventano sempre più frequenti e durano più a lungo, fino a quando alla fine cadi in un sonno prolungato.”
Una scossa alla testa in circostanze pericolose o inopportune, come alla guida di una macchina o durante una riunione, a volte può prevenire ulteriori episodi poiché lo shock e la realizzazione di ciò che è accaduto fa liberare l’adrenalina nel corpo e lo risveglia per un po’.
Gli autisti ne sono particolarmente colpiti quando la guida si fa maggiormente monotona. Sono più frequenti soprattutto nel pomeriggio poiché il corpo subisce un calo dei livelli di energia, e ancor di piú di notte quando una persona di solito dorme .
I giovani conducenti sono anche più a rischio degli adulti poiché i giovani hanno bisogno di dormire di piú in generale, quindi é soprattutto nel loro caso che é da evitare la perdita del sonno.
Il Dipartimento dei trasporti americano stima che quasi il 20% degli incidenti siano legati al sonno. Chi si trova alla guida di un mezzo non ha scuse, afferma il prof. Horne: “Il sonno non viene di punto in bianco. Non puoi guidare in perfetta coscienza e un minuto dopo addormentarti. C’è sempre tempo sufficiente per rendersi conto di quanto sei assonnato.”
Va quindi raccomandato di dormire a sufficienza, il che per la maggior parte degli adulti significa tra le sette e le nove ore a notte. Il microsleep può anche essere il risultato dell’apnea notturna, una condizione respiratoria troppo spesso non adeguatamente valutata e che interrompe il sonno, ne peggiora la qualità, anche se la durata apparirebbe normale e ti fa sentire costantemente stanco.
Il primo consiglio, è di parcheggiare in sicurezza, quindi bere un caffè, fare un pisolino di 15 minuti e poi rinfrescarsi prima di continuare il viaggio.
Attenzione assoluta poi alle norme per un buon sonno ristoratore: “Analizza le tue abitudini e prendi in considerazione di apportare piccole modifiche, come rientrare 15 minuti prima di notte. Altre abitudini consigliabili includono andare a letto (e svegliarsi) ogni giorno alla stessa ora, impegnarsi in rilassanti rituali notturni come fare il bagno o leggere un libro, praticare esercizio fisico con regolarità e limitare la caffeina e l’alcool in particolare prima di coricarsi. Non trascurare poi di sorvegliare il sonno, per escludere gli insidiosi microrisvegli dovuti al russamento notturno con episodi dispnea.”

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Il surf di Neanderthal

Nella sua monografia classica sullo scheletro di Neandertal ritrovato a Bouffia Bonneval a La Chapelle-aux-Saints, a Corrèze, in Francia, Marcellin Boule ha segnalato la presenza di escrescenze ossee (esostosi) nei canali uditivi. Non ha commentato ulteriormente questa particolarità, ma da allora la presenza di esostosi uditive esterne è stata descritta in un numero particolarmente alto di resti umani del Pleistocene medio, in diversi altri Neandertal, e in numerosi crani umani arcaici soprattutto del moderno paleolitico superiore.
Le esostosi uditive esterne sono multiple crescite ossee che sporgono nel canale uditivo esterno. Queste anomalie sono relativamente poco frequenti nell’uomo moderno, e colpiscono soprattutto chi pratica sport acquatici. In Europa questa anomalia viene definita: “orecchio del nuotatore”, oltre oceano per lo più: “orecchio del surfista”. Gli osteomi del condotto uditivo esterno sono stati descritti come entità clinica per la prima volta più di un secolo fa. Con certezza è stato dimostrato che la loro distribuzione tra gli umani successivi dell’Olocene varia a seconda della latitudine e si correla con l’esposizione abituale all’acqua soprattutto se fredda. In particolare, le osservazioni cliniche e bioarcheologiche indicano che sono principalmente dovute a un’irritazione ambientale del rivestimento osseo del canale uditivo esterno. Come notato per la prima volta da Van Gilsee Harrison, l’irritante più frequentemente osservato è l’acqua fredda, nel contesto degli sport acquatici. Un secondo fattore favorente l’insorgere delle esostosi del canale uditivo é l’esposizione al vento.
Si tratta di formazioni assolutamente benigne, che però possono portare all’accumulo del cerume e talora alla perdita dell’udito impedendo una corretta trasmissione del suono al timpano. Spesso sono più comuni nei maschi, probabilmente legati più alle differenti attività che alla suscettibilità differenziale tra i due sessi.
Dei 23 resti di Neanderthal esaminati dal professor Erik Trinkaus dell’università di Washington, circa la metà presentava forme di esostosi di diverse dimensioni, almeno il doppio della frequenza osservata in quasi tutte le altre popolazioni analizzate.
Quindi, a meno che gli uomini di Neanderthal non fossero degli appassionati surfers in cerca dell’onda perfetta, tali osservazioni potrebbero significare che essi pescavano molto più frequentemente di quanto la documentazione archeologica suggerisca.
La conclusione dei paleoantropologi sulla base di queste osservazioni é che i Neanderthal avessero un discreto livello di tecnologia e conoscenze, poiché per avere successo nella pesca o nella caccia ai mammiferi acquatici, dovevano essere in grado di sapere quando i pesci risalgono i fiumi o si avvicinano alla costa e quindi l’abilità di elaborare un processo mentale piuttosto evoluto.

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Niente sesso, ho il naso chiuso!

Una recente ricerca medica mette in preoccupazione i produttori di Viagra, perché le vendite potrebbero calare sensibilmente: un’operazione al naso è in grado, infatti, di risolvere molti problemi di disfunzione erettile.
“Ho mal di testa.” “Sono troppo stanco.” Ormai ricorre anche nelle barzellette il leitmotiv per sfuggire all’intimità con il partner.
Da recenti studi condotti alla Cleveland Clinic, Un team di ricercatori otorinolaringoiatri ha scoperto che la rinite allergica e la rinosinusite cronica influenzano negativamente il desiderio sessuale e la capacità erettile nell’uomo. Considerando che fino al 40% della popolazione nei paesi piú evoluti soffre di rinite allergica e che da 30 a 40 milioni di persone negli USA presentano una sinusite cronica, si puó avere un’idea di quante persone possano presentare diminuzione dell’attività sessuale soprattutto nei periodi in cui l’allergia é piú presente come in primavera.
La rinite allergica si manifesta come una infiammazione cronica, causa gonfiore e prurito all’interno del naso, tipicamente provocati dal contatto con allergeni della polvere, polline o peli. La conseguenza: naso chiuso che cola, respirazione difficoltosa e starnuti a raffica. Nella rinosinusite cronica, l’infiammazione coinvolge anche i seni paranasali, causando produzione di muco e catarro, congestione e pressione facciale anche per diversi mesi. Secondo Michael Benninger, presidente del Head & Neck Institute della Cleveland Clinic e autore principale di numerosi studi, ci sono molteplici ragioni per cui queste condizioni influenzano il desiderio sessuale.
“Le persone non si sentono bene, sono spesso affaticate cronicamente e non dormono bene. Inoltre, non si sentono sexy. Anche un semplice atto come il bacio non è percepito come piacevole con un naso chiuso o gocciolante”, dice questo autore.
E prosegue: “Il senso dell’olfatto ha un ruolo importantissimo, talvolta inconscio nel sesso. I feromoni svolgono un ruolo determinante. Altri profumi, come il sudore, possono scatenare il desiderio. Ma se non riesci a respirare, non riesci a sentire l’odore, perché l’aria non può entrare nel naso e trasportare quelle particelle che permettono di percepire questo odore familiare e eccitante”, spiega il dott. Benninger.
La buona notizia, che conferma tali ricerche, è che il miglioramento dei sintomi della rinite allergica e della rinosinusite cronica ravviva nettamente l’attività sessuale. Le malattie allergiche del naso possono essere trattate con una grande varietà di farmaci, tra cui soprattutto spray steroidei per via nasale, altri farmaci per bocca attivi su allergie e asma, irrigazione nasali, antibiotici, ma anche cortisone o vaccini specifici.
La rinite allergica viene raramente trattata chirurgicamente, come invece avviene per la sinusite cronica, che richiede sovente il ricorso alla sala operatoria. L’intervento è in genere minimamente invasivo, eseguito per mezzo di un endoscopio in modo che non si rendono necessarie incisioni esterne. Gli uomini che si sono sottoposti ad un intervento per eliminare i polipi hanno riferito di aver avuto benefici inaspettati in chiave sessuale.
Un altro studio del Dr. Benninger ha mostrato miglioramenti evidenti nella vita sessuale nei pazienti anche dopo l’intervento chirurgico di settoplastca. “Prima dell’intervento chirurgico, il 33 % dei pazienti ha affermato che la cattiva respirazione nasale ha ridotto il loro desiderio parzialmente, e il 9 percento completamente. Dopo l’intervento chirurgico, queste percentuali sono scese rispettivamente al 19 % e all’1 % “, afferma il Dr. Benninger.
Un altro significativo studio, condotto da scienziati della Kaohsiung University di Taiwan, ha coinvolto un alto numero di uomini. Confrontando 14.000 uomini con sinusite con 14.000 volontari sani, la ricerca ha rivelato che coloro che avevano problemi nasali presentavano un rischio aumentato del 51% di sviluppare anche una disfunzione erettile. I ricercatori hanno concluso: “I nostri risultati indicano una più frequente associazione tra sinusite cronica e disfunzione erettile negli uomini di età superiore ai 35 anni rispetto ad altri gruppi di età, in particolare in quelli di età compresa tra 35 e 50 anni.
“I medici dovrebbero essere più consapevoli del rischio di problemi erettili nei pazienti con sinusite cronica”.
La chirurgia nasale potrebbe pertanto essere la risposta per coloro che cercano di risolvere le loro difficoltà
di erezione?
Va ricordato che la maggior parte dei casi di sinusite si risolve comunque dopo solo un paio di settimane. Tuttavia, in migliaia di pazienti la malattia puó trasformarsi in un’infiammazione prolungata, quindi cronica.
Se questo è il caso – e sono state esplorate tutte le altre opzioni di trattamento – i medici spesso raccomandano un intervento chirurgico al setto e ai seni paranasali per asportare i polipi che ostruiscono il naso.
È ormai accertato che queste operazioni sono in grado di ripristinare la funzione erettile e aumentare il desiderio sessuale.

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La sigaretta elettronica

Soprattutto alle persone con malattie delle vie respiratorio si consiglia di smettere di fumare, prima di qualsiasi altro provvedimento. La tecnica ha sviluppato da qualche anno le sigarette elettroniche, proposte come alternativa “più sicura” al tabacco o come mezzo per diminuirne gradualmente l’uso.
Introdotti sul mercato per la prima volta nel 2003, questi dispositivi sono stati ben accolti da coloro che non si sentono sicuri di perdere l’abitudine al fumo di sigaretta. Molti operatori ne sono poco entusiasti, infatti non vi sono prove a sostegno del loro uso nei programmi per smettere di fumare, suggerendo al contrario che tali dispositivi comportano anch’essi gravi rischi per la salute.
Le sigarette elettroniche sono apparecchietti alimentati a batteria, riempiti con una soluzione di nicotina liquida, acqua e glicole propilenico. Per lo piú di forma cilindrica, sono simili a bocchini per sigarette. Una batteria riscalda la soluzione e crea un vapore che si può inalare. L’azione, che stimola la sensazione del fumo, viene definita da alcuni col termine “svapare”.
La nicotina è uno stimolante presente nel tabacco ed è la causa della dipendenza da sigarette ma non è di per sé considerata cancerogena. I sostenitori affermano che rimuovendo il catrame e i prodotti della combustione dal fumo, le persone che usano le sigarette elettroniche abbiano un’alternativa “più sicura” al tabacco.
Lo svapo si riferisce all’inalazione e all’espirazione di questo liquido vaporizzato che può contenere o meno nicotina. Uno studio chiave pubblicato nel 2017 e finanziato dal Cancer Research nel Regno Unito ha evidenziato che le persone che passavano dalle sigarette normali alle sigarette elettroniche avevano livelli di agenti cancerogeni molto più bassi nel loro corpo rispetto a quelli che continuavano a fumare. I ricercatori hanno inoltre concluso che l’assunzione di nicotina non era maggiore rispetto alle sigarette normali e che “esiste un rischio complessivo molto basso” associato all’uso a lungo termine di tali dispositivi.
Nel 2015, lo svapo ha attratto solo circa 11 non fumatori su 100. Tuttavia, nel 2018, 40 utenti su 100 di età compresa tra 18 e 24 anni erano in precedenza non fumatori. È stato anche notato che lo svapo attira più giovani rispetto agli adulti, tra cui il 4,3% degli studenti delle scuole medie e l’11,3% degli studenti delle scuole superiori. Per capire le cause del mal di gola che ne puó derivare, è utile capire come funziona lo svapo.
Vi sono diverse parti funzionali in una sigaretta elettronica. Le principali sono:
Serbatoio: il sistema di stoccaggio che contiene il prodotto da vaporizzare (liquido). Il serbatoio contiene anche uno stoppino per trasferire il succo di vaporizzazione nell’atomizzatore.
Dispositivo di consegna: esistono tre tipi principali di sistemi di consegna. L’ atomizzatore è costituito da una bobina che trasforma il liquido in un vapore che può essere inalato. Il cartomizzatore è simile all’atomizzatore tranne per il fatto che ha un materiale attorno alla bobina chiamato polyfill che si impregna per consentire tempi di svapo più lunghi. Il clearomizer ha un serbatoio trasparente con un sistema a stoppino come l’atomizzatore.
Le batterie vengono utilizzate per inviare corrente alla bobina nell’atomizzatore allo scopo di riscaldare il liquido e trasformarlo in vapore a temperatura controllata. I liquidi che si usano per la carica sono costituiti da: glicole propilenico, glicerina vegetale, nicotina (opzionale) e aromi alimentari.
Alcuni liquidi in commercio contengono diacetile. Si tratta di un aroma alimentare presente comunemente nei popcorn, nel burro e in molti formaggi. Tuttavia, il diacetile che viene inalato nelle fabbriche alimentari è noto per causare un disturbo severo detto bronchiolite obliterante . Tali effetti a lungo termine, che finora non erano noti, sembrano venire prepotentemente alla cronaca con il recente caso di decesso per sigaretta elettronica di cui leggiamo sui quotidiani in questi giorni.
La sigaretta elettronica non è purtroppo così innocua come viene pubblicizzata. Il vapore può contenere composti organici volatili: responsabili di effetti sulla salute a breve e lungo termine, metalli pesanti: piombo, nichel e stagno, particelle ultrafini che si possono depositare nei polmoni ed anche sostanze chimiche cancerogene.
Il cosiddetto “colpo alla gola” è la sensazione che si prova quando si inala nicotina. I fumatori lo sperimentano e lo ricercano quando fumano sigarette, e lo si sente ancora di piú quando si fuma un sigaro.
Il colpo alla gola viene a mancare usando la sigaretta elettronica, ma può essere riprodotto e adattato alle esigenze individuali del soggetto. È possibile aumentare il colpo alla gola dello svapo in diverse maniere: colpi più forti associati all’aumento della percentuale di nicotina, oppure aumentando i livelli di glicole propilenico.
Anche un bocchino più piccolo che restringe il flusso d’aria può causare un colpo alla gola più duro.
Influisce inoltre il tipo di soluzione inalata: i sapori più forti forniranno un forte colpo alla gola, mentre i sapori più morbidi lo indeboliranno.
In mal di gola è un effetto collaterale comune e previsto nel primo periodo di astinenza dalla nicotina. I centri antifumo consigliano ad esempio un cerotto alla nicotina che risulta migliore rispetto alla sigaretta elettronica.
La maggior parte dei liquidi in commercio può contenere diversi composti organici volatili o diacetile, noti per causare fastidiose e prolungate irritazioni alla gola.
Negli Stati Uniti, la FDA avverte il pubblico che:
“Le sigarette elettroniche possono aumentare la dipendenza da nicotina nei giovani e indurli all’uso, piuttosto che allontanarli dalle sigarette normali. Dal 2005, l’uso di sigarette elettroniche nei giovani è aumentato di circa il 900 %.”
Si è potuto appurare con certezza che alcune sigarette elettroniche possono contenere ingredienti tossici per l’uomo. In casi recentemente pubblicati, è stato riscontrato antigelo in due importanti marchi di sigarette elettroniche ed anche tracce elevate di formaldeide. Inoltre non sappiamo nemmeno cosa ci sia in molte delle soluzioni vendute, perché non viene descritto nelle confezioni.
La stessa nicotina non può certo essere considerata innocua in quanto in grado di influenzare seriamente lo sviluppo del cervello dell’adolescente e persino causare danni al feto in via di sviluppo (con riduzione del peso alla nascita, nascita pretermine e aumento del rischio di sindrome della morte improvvisa del bambino in culla).
È comunque accertato che smettere l’uso delle sigarette elettroniche non è più semplice della riduzione delle sigarette normali. Il tasso di fallimento è altrettanto elevato. Se si ha intenzione di smettere di fumare è meglio smettere tutto in una volta.

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LA COMUNICAZIONE DISTORTA

Un esempio di comunicazione distorta molto attuale é quello degli odiatori ovvero gli “haters”. È una diretta conseguenza della disponibilità universale dei nuovi media e del mondo che hanno contribuito a creare. Come i selfie quando ancora non esistevano i social media si chiamavano autoritratti, oggi si definiscono hater quelli che una volta venivano definiti grafomani.
“Graphomania” è un termine della psichiatria tradizionale che si riferisce a coloro che hanno un’aspirazione patologica, un’inclinazione dolorosa o una passione per la scrittura infruttuosa, che li spinge a scrivere ovunque testi che non hanno alcun valore culturale, narrativo o informativo. Frequentemente si tratta di individui asociali, solitari, con bassa autostima che non riescono a trovare un linguaggio comune con nessuno e riversano i loro sentimenti e pensieri in forma scritta. Il grafomane, scrivendo, compensa il suo bisogno di comunicazione, le sue opere sono brillanti solo per lui che le scrive. Crede veramente nel suo genio. “Solitamente il soggetto cerca con tale attività di estrinsecare e rendere socialmente presente il proprio io” dice lo psicologo. Si tratta a tutti gli effetti una forma particolare di esibizionismo che si riscontra frequentemente nei giovani normali, solitamente per un breve periodo durante l’adolescenza. Con l’età adulta questo comportamento assume caratteri patologici e va considerato sintomo di malattia mentale. La si osserva infatti in schizofrenici, ma più spesso in personalità psicopatiche o in soggetti nevrotici.
Il rapido evolversi di internet e la conseguente nascita dei social media negli ultimi anni, hanno rivoluzionato in modo radicale il nostro modo di comunicare, stravolgendo il concetto stesso di interazione sociale. Questo 21.esimo secolo è stato protagonista dell’esplosione dei social network e delle piattaforme web di condivisione come, per esempio, Facebook, Twitter, Instagram, YouTube. Questi strumenti consentono la pubblicazione, la lettura e la condivisione immediata di contenuti audio, video o testuali in modo rapido e semplice, favorendo una forma di partecipazione online straordinariamente coinvolgente. Tutto ciò ha comportato che il tradizionale grafomane ha superato l’impulso a scrivere una lettera anonima o un messaggio sul muro di una latrina pubblica e si sia evoluto in un hater. I social network, hanno involontariamente favorito la diffusione su larga scala di comportamenti negativi e distruttivi che David-Ferdon e Hertz hanno definito “aggressioni elettroniche” e una forme più diffusa di aggressione come il cyberbullismo, un comportamento aggressivo, ripetuto e sistematico, rivolto a una persona specifica. Recentemente gli psicologi Di Natale e Triberti hanno definito molto bene la struttura di questi individui, ed anche di una seconda categoria di aggressori elettronici che, al contrario, sarebbero privi di una precisa vittima designata. “Rientrano in questa categoria i cosiddetti “troll”, ovvero persone che sfruttano il mondo online per connettersi in modo anonimo e scrivere commenti crudeli e brutali apparentemente senza uno scopo preciso se non quello di creare scompiglio e ottenere reazioni da altri utenti”. Secondo uno studio condotto dall’Osservatorio Italiano sui Diritti e da alcune università italiane, le categorie su cui riversa maggiormente l’odio sono le donne, gli omosessuali, i migranti, i diversamente abili e le persone di religione ebraica. Lo studioso della comunicazione Hardawer, che ha condotto ricerche in quest’ambito, ha analizzato i contenuti dei messaggi degli haters e ha concluso che sono caratterizzati dall’assenza di obiettivi precisi e critiche costruttive e si distinguono per la difficoltà di individuare una motivazione chiara e radicata nel contesto in cui si manifestano. Numerose testimonianze ci confermano che, per lo più, le persone tendono al cospetto di una tastiera e di uno schermo a dire o fare cose in modo più disinibito e intenso rispetto a come le direbbero in un faccia a faccia. Questo fenomeno è stato definito da Suler effetto di “disinibizione online”. È confermato inoltre che la comunicazione mediata da uno strumento offre al grafomane/hater l’opportunità di sperimentare una separazione e distinzione delle sue azioni online dall’abituale stile di vita e dalla sua vera identità. Il fatto che nel mondo online le persone non possano vedersi l’un l’altra contribuisce ad aumentare questo effetto di disinibizione dando il coraggio agli utenti di fare cose che in altri contesti non farebbero. Anche non dover far fronte alla reazione istantanea dell’altra persona accentua l’effetto di perdita di freni in inibitori. Spesso ad amplificare questa disinibizione contribuisce anche la possibilità di dissociarsi e creare un proprio personaggio che deve trovare una collocazione nel web, in uno spazio etereo in cui le conseguenze delle proprie azioni sono concepite come meno intense, meno gravi e molto meno problematiche. Nel web davvero uno vale uno, gli indici sociali non verbali (abbigliamento, posture e altro) non sono assolutamente percepiti e chi sta alla tastiera non é portato a riconoscere l’autorità degli altri e di conseguenza non regola il comportamento come farebbe se la conversazione si sviluppasse tra due persone a tu per tu.
Queste distorsioni della comunicazione, quindi vengono messe in atto per il puro piacere di farlo e il fenomeno va letto come una manifestazione quotidiana online dei tratti sadici che le persone tendono a non esprimere nella vita reale.
Come comportarsi pertanto quando incappiamo in personaggi di questo tipo? Sembra premiare la strategia riassunta dal noto adagio “don’t feed the troll” in italiano “non dar da mangiare al troll”; se l’hater viene ignorato, e i destinatari delle offese non rispondono ai suoi attacchi, egli tende ad annoiarsi e ad abbandonare il contesto online dove ha cercato invano di creare confusione.

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PER UN BUON USO DELL’ARIA CONDIZIONATA

Si sta diffondendo anche da noi l’uso del condizionatore d’aria che apprezziamo soprattutto in queste estati di caldo torrido che ci disturbano il sonno sempre piú precocemente, con temperature piú elevate e per periodi piú lunghi. Rientrare in in auto, a casa o in ufficio, in un ambiente fresco ci fa sentire sereni e abbiamo l’impressione di riposare meglio. In realtà spesso, dopo 10-15 minuti si avverte la necessità di uscire e respirare un po’ l’aria esterna piú calda e umida. In effetti, nella maggior parte delle abitazioni e ancor piú in uffici pubblici e negozi, la temperatura dell’aria condizionata è talmente bassa che non ci si sente a proprio agio per cui viene voglia di uscire all’aperto. Tra gli indubbi vantaggi dei condizionatori va premesso che essi, sono d’aiuto agli individui che soffrono di asma e riniti allergiche, in quanto il polline e la polvere vengono filtrati attraverso il sistema. I condizionatori d’aria sono anche in grado di ridurre l’umidità asciugando e depurando l’aria che respiriamo.
Questi sistemi, peró, devono essere estremamente ben mantenuti, controllati e puliti, poiché basta pochissimo perché gli effetti favorevoli siano vanificati ed insorgano disturbi soprattutto respiratori e infettivi.
Quali sono in sintesi le conseguenze negative di un errato utilizzo del condizionatore d’aria:
1. Malattie respiratorie: quando i condizionatori d’aria non sono puliti a fondo e i filtri non vengono regolarmente cambiati, si crea un terreno di cultura favorevole allo sviluppo di diversi tipi di batteri e funghi. In particolare, questi apparecchi possono ospitare muffe nere, poiché l’umidità può accumularsi nelle bobine e nei condotti dalla condensa che si forma al passaggio dell’aria fredda. Quando questi microrganismi vengono immessi nell’aria delle nostre case, possono causare una moltitudine di patologie respiratorie, tra cui una polmonite infettiva potenzialmente fatale: la legionellosi.
Per scongiurare una tale situazione é necessario assicurarsi che le macchine siano pulite regolarmente e che il filtro sia cambiato ogni pochi mesi.
2. Stanchezza, mal di testa e malessere generale: molte persone scoprono che al termine di una giornata di lavoro, si sentono spesso più stanche del solito, accusano cefalea e un senso generale di malessere. Scoprono peró che una volta che lasciano l’edificio, i sintomi spesso si risolvono. Questa situazione, che viene definita “sindrome da edificio malato”, può essere provocata dall’aria condizionata che si respira. In uno studio pubblicato sull’International Journal of Epidemiology, le persone che lavorano negli uffici con aria condizionata centralizzata lamentano più frequentemente i sintomi di questa malattia.
Una strategia per proteggerci é quella di alzare leggermente la temperatura programmata, in modo da non avere mai sensazione di freddo e fare pause regolari per allontanarsi dall’aria troppo fresca e mantenere una temperatura corporea equilibrata.
2. L’Environmental Protection Agency (EPA) ci avverte inoltre che potremmo essere più esposti agli inquinanti all’interno che all’esterno delle case, soprattutto perché l’aria condizionata centralizzata non porta aria fresca ma fa ricircolare l’aria vecchia. Ciò significa che se ci sono muffe, polvere, peli di animali o altre persone nell’edificio hanno virus o infezioni trasmesse per via aerea, gli individui risultano più esposti.
Poiché quindi alcuni sistemi sono costruiti per isolare molto e limitare al massimo le perdite dall’esterno, é possibile favorire un personale collegamento con l’esterno aprendo leggermente una finestra.
4. La pelle tende ad essiccarsi. Più tempo trascorriamo in un ambiente climatizzato, piú la nostra cute ne soffre e si desquama superficialmente, poiché l’aria fredda e secca può causare la perdita della porzione piú esterna. Anche i capelli possono soffrire di tali effetti negativi.
Il rimedio consiste nel non dimenticare mai di cospargersi con una buona crema idratante.
5. È necessario ricorrere al medico più spesso. Studi epidemiologici hanno dimostrato che gli individui che trascorrono molto tempo in ambienti climatizzati fanno un maggior ricorso ai servizi sanitari. È stato confermato che i medici vengono interpellati prevalentemente per disturbi di naso e gola, patologie respiratorie in genere e disturbi dermatologici. Le assenze per malattia sono piú numerose tra coloro che sono esposti per lunghi periodi all’aria condizionata. Ricordiamo pertanto che per goderci un gradevole fresco anche in queste giornate estive va rispettato quanto ci viene raccomandato dagli esperti installatori e soprattutto ci si deve assicurare che gli ambienti condizionati (la camera o l’auto) siano puliti a fondo.

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acqua e esercizio fisico

L’acqua è il più importante costituente del corpo umano.
Il contenuto di acqua di vari organi varia dall’83% nel sangue a solo il 10% nel tessuto adiposo. Circa due terzi di questa acqua si trovano dentro le nostre cellule e solamente un terzo nel compartimento extracellulare (plasma e liquidi interstiziali).
L’acqua è essenziale per le nostre principali funzioni fisiologiche in quanto agisce come mezzo per consentire numerose reazioni metaboliche.
Come componente principale del sangue l’acqua trasporta nutrienti, ormoni e altri importantissimi elementi alle cellule e ne allontana i rifiuti metabolici, per consentirne l’escrezione dal corpo.
L’acqua è inoltre il solvente che aiuta l’eliminazione dei rifiuti metabolici da parte dei reni, attraverso la produzione di urina.
Essa garantisce la regolazione della temperatura corporea. È il principale costituente del sudore e, attraverso la sua evaporazione dalla superficie della pelle, aiuta a dissipare il calore corporeo in eccesso.
Il mantenimento di un corretto bilancio idrico, cioè l’equilibrio tra assunzione ed eliminazione è essenziale per una buona salute.
È tanto più essenziale in quanto non esiste un vero deposito di riserva d’acqua nel corpo: i liquidi che noi perdiamo devono essere sostituiti, infatti gli esseri umani non possono sopravvivere più di pochi giorni senza bere.
Perdiamo acqua inconsapevolmente in modo quasi continuo ogni giorno.
Cioè avviene attraverso il tratto respiratorio respirando, ma anche lungo il tratto gastro-intestinale nella produzione delle feci, inoltre attraverso la pelle con il sudore e soprattutto con il lavoro dei reni che producono urina.
Lo stile di vita e le condizioni ambientali hanno un impatto significativo sul livello individuale di perdita d’acqua, ma in media un adulto medio perde circa 2,6 litri al giorno.
Ulteriori perdite d’acqua con il sudore sono indotte dall’esercizio fisico soprattutto in un ambiente caldo che possono arrivare perdite d’acqua fino a diversi litri. Reintegriamo per fortuna facilmente tali perdite con l’assunzione di liquidi e cibo.
Quando facciamo esercizio fisico, i nostri muscoli producono calore che deve essere evacuato per mantenere costantemente al di sotto di un determinato limite la temperatura corporea.
L’acqua agisce come trasportatore di calore attraverso il sangue e come refrigerante rimuovendo il calore in eccesso con l’evaporazione del sudore sulla pelle. Le osservazioni dell’eliminazione del sudore in vari sport hanno mostrato variazioni significative nei tassi medi di sudore, a seconda del tipo e dell’intensità (allenamento o competizione) dell’attività.
Ad esempio, in un’ora d’estate, un adulto maschio mediamente allenato suda approssimativamente mezzo litro (0,4L) con il nuoto, piú del triplo giocando a calcio (1,5L), piú ancora con un’ore di tennis (1,6L) e ancora di piú praticando corsa campestre (1,8L).
Questi valori per una femmina adulta sono leggermente inferiori, ma comunque piuttosto elevati.
Il segreto per una efficiente prestazione sportiva é di essere ben idratati prima, durante e dopo l’esercizio sportivo.
La quantità di sudore perso aumenta proporzionalmente all’intensità dell’esercizio, ma anche alla temperatura e l’umidità dell’ambiente circostante.
Se i requisiti di reidratazione durante l’esercizio fisico non sono soddisfatti, il corpo può rischiare uno stato di disidratazione.
La disidratazione durante l’esercizio è particolarmente pericolosa e puó diventare drammatica. È stato dimostrato che la disidratazione aumenta sia la frequenza cardiaca che la temperatura corporea. Ad esempio, quando il volume plasmatico è ridotto a causa della perdita di liquidi, il cuore deve lavorare più velocemente per mantenere l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive ai muscoli.
Numerosi studi, esaminati nell’American College of Sports Medicine (ACSM), mostrano che la disidratazione aumenta lo sforzo fisiologico e lo sforzo percepito per eseguire lo stesso esercizio, e che il clima caldo-umido accentua questo fenomeno. L’ACSM ritiene inoltre che una disidratazione superiore al 2% della massa corporea possa abbattere le prestazioni degli esercizi aerobici e quindi soprattutto le prestazioni di resistenza.
È questo il motivo per cui si raccomanda agli atleti non solo di garantire un’adeguata idratazione durante l’esercizio, ma anche prima e dopo, al fine di compensare le perdite d’acqua, senza aspettare che si manifesti sete.
Ma quali liquidi usare per una corretta integrazione? L’American Academy of Pediatrics ricorda ai genitori che “L’acqua è generalmente la scelta piú appropriata per l’idratazione prima, durante e dopo la maggior parte degli allenamenti o delle competizioni”
Un basso apporto di liquidi o un basso volume di urina sono responsabili di effetti negativi sulla salute, come una diminuzione della funzionalità renale, la formazione di calcoli renali, lo sviluppo di iperglicemia e altre sindromi metaboliche.
È sempre raccomandabile quindi mantenere un adeguato bilancio idrico, indipendentemente dall’età e dalla fase della vita.

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la misofonia

Certi suoni ci danno proprio molto piú fastidio di altri. Alcuni poi, anche se li sentiamo a basso volume, proprio non li possiamo sopportare! Questo si definisce: misofonia, cioè una forma di ridotta tolleranza al suono. Si ritiene possa essere un disturbo neurologico risultante da un’esperienza negativa riguardo a uno specifico suono, indipendentemente dal fatto che sia forte o debole. A differenza dell’iperacusia per la quale tutti i suoni sono generalmente insopportabilmente forti, la misofonia è specifica per un determinato suono.
Ad esempio, possono far insorgere misofonia:
I suoni prodotti con il naso (russamento, singhiozzo)
I suoni provenienti dalla bocca (sgranocchiare, mangiarsi le unghie)
Il pianto dei bambini
I suoni degli animali (cinguettio degli uccelli, gracchiare delle rane)
I suoni emessi con i movimenti del corpo (scrocchiare delle articolazioni)
I suoni ambientali (suonerie dei cellulari, ticchettio degli orologi)
Storicamente, vi è stato disaccordo riguardo alla classificazione della misofonia, non si sa infatti con precisione se si tratti di un disturbo psicologico o fisiologico. La dott.ssa Jennifer Jo Brout propone che la classificazione, la ricerca e le linee guida per il trattamento della misofonia siano affidate allo psicologo.
Il termine Misofonia è stato in realtà coniato da un otorinolaringoiatra: Pavel Jastreboff della Emory University School of Medicine che la definí “un disturbo dell’udito che coinvolge anche le aree cerebrali che elaborano l’eccitazione del sistema nervoso simpatico e la risposta emotiva”. Quando anche i ricercatori sulla salute mentale hanno cominciato a dedicarsi alle ricerche sulla misofonia, sono emersi contrasti nella classificazione.
Oggi è sufficientemente condiviso che la misofonia sia un disturbo neurofisiologico con conseguenze psicologiche. Più in particolare, gli individui con esperienza di misofonia presentano una eccessiva eccitazione del sistema nervoso autonomo accompagnata da una reattività emotiva negativa in risposta a specifici suoni.
È dimostrata l’attivazione del sistema nervoso simpatico (sudorazione, arrossamento, vasodilatazione) in risposta a stimoli uditivi.
Non esiste un trattamento ufficiale per la misofonia, un approccio multidisciplinare può essere utilizzato per aiutare i pazienti a far fronte al disturbo.
Il team che se ne occupa dovrebbe in ogni caso includere un audiologo che possa valutare la misofonia e escludere altri problemi uditivi. Gli audiologi possono anche aiutare i pazienti ad usare generatori di suoni aperti per aiutare nell’assuefazione e per mascherare i suoni disturbanti.
Psicologi e consulenti possono lavorare con coloro che soffrono di misofonia per sviluppare abilità e strategie mentali e comportamentali da mettere in atto per fronteggiare una tanto difficile situazione.
Questi operatori devono aiutare i pazienti a: comprendere il loro disturbo, ridurre l’intensità e la durata della reattività ad esso, ridurre l’ansia e il disagio emotivo che ne deriva, mantenere uno stile di vita e un programma di sonno sani, ridurre le tensioni familiari legate alla misofonia.
Oltre ai contributi clinici di audiologi e psicologi, i terapisti occupazionali possono collaborare a distinguere la misofonia dai più generali disturbi dell’elaborazione sensoriale. Neurologi e medici di famiglia vanno coinvolti allo scopo di escludere altri problemi di base che potrebbero contribuire ai sintomi di misofonia.

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La protesi acustica che legge i nostri pensieri

Milioni di persone faticano a comunicare in ambienti rumorosi, in particolare gli anziani. Il 7% della popolazione europea è classificato come ipoudente. Gli apparecchi acustici possono efficacemente gestire una semplice perdita di sensibilità uditiva, ma non ripristinano la capacità di sentire come quando eravamo giovani, in grado di cogliere una debole voce tra molte persone che parlano simultaneamente. Questa é una prerogativa fondamentale e necessaria per una comunicazione sociale efficace. L’elaborazione del segnale acustico con una protesi acustica può migliorare qualsiasi sorgente rispetto ai suoni circostanti, ma come fa il dispositivo a sapere quale fonte migliorare? Amplificare i rumori di fondo e nascondere quello che vorremmo veramente sentire ovviamente sarebbe disastroso. Un sano sistema uditivo è in grado di fare la scelta giusta, grazie al fatto che tutte le fasi di elaborazione dall’orecchio al cervello sono sotto il controllo dell’attenzione del soggetto. Un dispositivo esterno al cervello come la protesi acustica non ha questo controllo.
Si cerca sempre di migliorare questo problema, anche con soluzioni tecniche all’avanguardia. I microfoni direzionali sugli apparecchi acustici di solito puntano dritto verso avanti, quindi l’utente può concentrarsi su un bersaglio orientando la testa. Lo schema direzionale può essere commutato tra direzionale e omnidirezionale, manualmente (un interruttore sull’apparecchio acustico o un dispositivo portatile che lo controlla) o automaticamente sulla base del modo in cui un algoritmo interpreta la scena sonora in corso. Nessuno di questi è per del tutto soddisfacente: un utente potrebbe voler percepire suoni che provengono da un lato o da dietro, o potrebbe non desiderare di dover armeggiare con un dispositivo portatile, o potrebbe essere infastidito dal fatto che il dispositivo prende le proprie decisioni, cambiando il “regole del gioco” di propria iniziativa. L’opportunità ci viene offerta dai decisivi progressi tecnologici nel campo dell’analisi delle scene acustiche. Una sensazione molto comune dopo la mezza età è che “non possiamo capire una conversazione” in un ambiente rumoroso o riverberante (come un pub, un ristorante o un cocktail party). Una visita di uno specialista può non rivelare una severa perdita obiettiva di sensibilità: il problema non è che non possiamo sentire una voce lieve, ma piuttosto che non possiamo capire una voce anche forte in una situazione con molti rumori di fondo, quando cioè il rapporto segnale-rumore (SNR) è insufficiente.
Definiamo la voce di cui vogliamo seguire il discorso con il termine tecnico di “segnale”, mentre si definisce “rumore” tutto quello che non é necessario per comprendere ciò che ci proponiamo di ascoltare. Con l’età, soprattutto se é associata una presbiacusia, il “rumore” disturba sempre piú e il “segnale” si comprende sempre meno. Si spiega cosí come soprattutto gli apparecchi acustici ricerchino strategie e tecniche in grado di migliorare il rapporto “segnale/rumore”. Molte di queste tecniche sono in circolazione da un po’di tempo e sono giá integrate negli apparecchi acustici disponibili in commercio. Una delle piú promettenti frontiere é in fase avanzata di studio e si propone di utilizzare i segnali cerebrali (EEG) per aiutare a guidare l’hardware dell’analisi delle scene acustiche, estendendo in effetti i percorsi neurali efferenti che controllano tutte le fasi del processamento dalla corteccia alla coclea, per governare anche il dispositivo esterno. Si ottiene cosí un controllo cognitivo della protesi acustica, che diventerebbe “intelligente” e in grado di selezionare tra le varie voci di una tavolata ad esempio esclusivamente quella del nostro interlocutore amplificandocela e rendendola piú comprensibile, attenuando contemporaneamente tutti quei rumori che ci inducono in confusione. Per avere successo, vanno ancora superati importanti ostacoli tecnici, attingendo a metodi dall’elaborazione del segnale acustico e dall’apprendimento automatico mutuati dal campo delle Intelligenze artificiali. Questa è la sfida .

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Medico, cura te stesso!

Dicono che un giocatore di calcio come Platini o Pelé si presenti solo una volta nella vita. Ha abilità fuori del normale, si comporta in modo coerente con standard elevati, è mentalmente determinato e prende le giuste decisioni anche quando è sotto pressione. Ha una forte etica del lavoro, sia nell’allenamento che nel gioco, ed è in grado di adattarsi in una grande varietà di ambienti. Sebbene sia un individuo enormemente dotato, rimane comunque un giocatore di squadra, che possiede indubbie doti di leadership.
In effetti questi sono tutti attributi che vorremmo riconoscere anche nei medici cui affidiamo la nostra salute. La maggior parte dei medici è tenuta a comportarsi a livelli estremamente alti in ogni manifestazione della loro attività lavorativa. Ogni medico é consapevole delle alte aspettative del paziente e nel contempo si rende conto delle possibili conseguenze se il risultato del suo operato è insufficiente o se commette un errore. Non sorprende quindi che i medici possano essere stressati e cagionevoli di salute a causa proprio della loro attività.
I livelli di malattia nei professionisti medici sono 20-, ma per certe attività anche il 60% piú elevati rispetto alla popolazione generale, indipendentemente dalla specialità o dal livello di anzianità. Questi risultati sono confermati da tutti gli studi effettuati. Addirittura i più alti tassi di suicidio riscontrano tra coloro che esercitano l’anestesia o la psichiatria. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si riferisce allo stress come all'”Epidemia del 21° secolo” e prevede che entro il 2020 cinque delle principali malattie di tutto il mondo saranno correlate allo stress. Questo significa che tutti noi abbiamo una possibilità su quattro di sviluppare una malattia correlata allo stress nella nostra vita.
“Ognuno di noi ha il proprio livello di stress positivo per cui il livello di pressione raggiunto ci stimola e ci esprimiamo al meglio delle nostre capacità”.
Che lo si ami o lo si rifugga, tutti abbiamo bisogno di stress nelle nostre vite. La chiave sta nel contenerlo entro certi limiti e gestirlo. Esiste una relazione diretta tra la quantità di stress che sperimentiamo e le nostre prestazioni; con troppo poco stress possiamo essere eccessivamente rilassati e poco performanti, con troppa tensione possiamo sentirci schiacciati e rischiare malattie e burnout.
Ognuno di noi ha il proprio livello di stress “ottimale” in cui il livello di pressione a cui arriviamo ci attiva e ci esprimiamo al meglio delle nostre capacità. Questo puó essere definito: essere “nella zona”, come l’atleta prima di una gara o noi stessi prima di una scadenza o di una prestazione.
Oggi abbiamo le prove concrete del legame tra tensioni e malattia. Lo stress infatti é correlato all’ansia e al panico, alla fatica e al burnout, ai disturbi dell’umore e al suicidio. Anche le forme per lo più genetiche o ereditarie di molte malattie mentali come il disturbo bipolare dell’umore e la schizofrenia possono essere precipitati e aggravati dallo stress.
Sono dimostrabili i collegamenti tra stress e malattie fisiche, in particolare malattie cardiache, ipertensione, attacchi cardiaci, obesità, malattie gastrointestinali, disturbi infiammatori dell’intestino, delle articolazioni e della pelle. Anche alcuni tumori possono essere favoriti o aggravati dallo stress. Recentemente, è stato collegato all’invecchiamento precoce e all’atrofia dell’encefalo. Lo stress porta frequentemente all’aumento dell’assunzione di alcol, al consumo di altre sostanze e alla dipendenza dal fumo, nonché al rischio di incidenti e questi aumentano enormemente i rischi per la salute.
“Gestire lo stress dipende da noi, ma esistono tecniche che si possono apprendere.”
I nostri atenei, gli enti di formazione e luoghi di lavoro sono tutti consapevoli dell’importanza di gestire la salute del medico e stanno sempre più mettendo in campo iniziative di salute e benessere, ma c’è ancora molto che possiamo fare a livello personale per gestire la nostra salute e la nostra capacità di recupero.
Difficoltà di addormentamento, astenia, stanchezza, mancanza di entusiasmo, rallentamento dei processi decisionali e di concentrazione frequentemente associati a irritabilità sono spesso i primi segni.
È importante avere consapevolezza del nostro stress e percepire i segnali di allarme quando oltrepassiamo una pressione eccessiva. Lo stress funziona a nostro vantaggio purché siamo in grado di non oltrepassare quella tensione sufficiente per portare a termine il lavoro, ma poi prenderci il tempo per recuperare e ricostituire le nostre riserve in vista della prossima situazione impegnativa. Ancora una volta, l’esempio deve essere l’atleta che calcola il tempo per il recupero tra le prestazioni in gara.
L’approccio raccomandato per la gestione dello stress è quello di assumere uno stile di vita e abitudini salutari oltre all’auto-aiuto come primo passo. Qualora fosse necessario, il trattamento che può essere utile è la terapia cognitivo-comportamentale che considera i tratti del pensiero e della personalità. Un trattamento farmacologico va intrapreso nel caso il problema persistesse nonostante questi input. Il farmaco usato è solitamente scelto nella grande famiglia degli antidepressivi o modulatori dell’umore che aiutano anche a combattere l’ansia, non creano assuefazione e non hanno effetti sedativi.
Nel nostro smartphone possiamo portare sempre con noi alcune app studiate per aiutarci con brevi pause guidate al rilassamento e alla meditazione. L’app Headspace ad esempio è una buona risorsa, ma online se ne trovano anche altre come Buddhify e Smiling Mind. Su www.futurelearn.com si possono inoltre seguire percorsi di gestione dello stress online anche gratuitamente.
Lavorare in ambito sanitario, essere costantemente esposto al pubblico, gestire a lungo alti livelli di responsabilità e rischi di ripercussioni pubbliche degli errori è enormemente gratificante, ma altrettanto stressante.

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